L’America
E’ sempre stato un piacere ricevere una telefonata da qualcuno che mi chiedeva della mia disponibilità, ma particolarmente piacere mi fece una proposta che prevedeva di girare un film in America. Partii da zero, non sapevo nulla della produzione, del regista e del progetto, ma pian piano ci entrai dentro con tutte le scarpe, come si dice. Franco Prosperi, uno scrittore di gialli aveva proposto una sua storia a un produttore giovane che trovò una distribuzione alla quale piacque il progetto. Il preventivo era bassissimo, se un qualsiasi film costava 300, questo non doveva costare più di 100. Sembrava un’impresa impossibile perciò partimmo come per girare un documentario, cinque persone. A New York ci aspettava un appoggio, un ragazzo americano, figlio di un ricco petroliere dell’Oklahoma, aveva l’hobby del cinema, viveva in California ma si muoveva bene anche a N.Y. Parlava un italiano stentato. L’arrivo in macchina dall’aeroporto a Manhattan mi fece quasi commuovere. All’inizio dell’enorme ponte si comincia a vedere il profilo dei grattacieli che andando avanti diventano giganteschi, entrando a Manhattan ci si immerge in un mondo mai immaginato così suggestivo nella sua enormità. Tutto è fuori misura per chi viene dall’Europa, le strade, le case, le macchine, le insegne pubblicitarie, la suggestione dei vapori che escono dal sottosuolo, sembra un sogno fiabesco. Mi sentivo una formichina. Anni dopo Ridley Scott si ispirò a quell’atmosfera per il suo mitico “Blade runner.” E che dire di Woody Allen che in quelle strade ambientò i suoi migliori film, e Spike Lee e tanti altri che amarono e descrissero quei quartieri?
Grey, il nostro appoggio, ci portò in un bell’albergo tra la quinta e la sesta, quaranta piani, ma le finestre davano su Central Park. Ero in estasi. Quell’albergo, sulla cinquantanovesima, accanto al Plaza è rimasto per anni il mio punto di riferimento di New York. Facemmo un paio di giorni di sopralluoghi, scegliemmo i principali set e il terzo giorno cominciammo a girare. Era arrivato da Hollywood anche il protagonista, George Webber, atletico giovane e promettente attore. Scoprimmo che in pieno centro, a Times Square si poteva girare quasi inosservati, ci prendevano per documentaristi, la gente era abituata a veder girare le grosse produzioni californiane che invadevano i set con camion, roulotte e mezzi tecnici a non finire. Girammo per due o tre settimane gli esterni e qualche interno dal vero con Webber e qualche attore preso sul posto. Ci capitò pure di trovarci lì la notte del grande Blackout del ‘65, io rimasi nell’atrio dell’albergo fino a tardi a veder rientrare gli ospiti al buio e a sentire le notizie dei saccheggi, dei negozi sfondati e vuotati, poi mi decisi a fare i venti piani fino alla mia stanza. Altri rimasero chiusi negli ascensori fino alle cinque del mattino, quando tornò la corrente. Grey si era trovato nella Subway e arrivò a mezzanotte sporco e stracciato come uno spazzacamino, aveva dovuto fare le gallerie della metropolitana e le scale a chiocciola nel buio totale.
Il film era la storia di un killer che doveva uccidere con un fucile di precisione il testimone di un processo a carico di un potente mafioso. La scena clou l’avremmo dovuta girare dall’ultimo piano, il trentesimo, di un grattacielo del centro. Ma appena arrivati, Webber si rese conto che soffriva di vertigini, terrorizzato e pallido come un cencio si appoggiò alla parete chiudendo gli occhi, lo dovemmo accompagnare due piani più sotto dove c’era una situazione migliore, c’era un terrazzino. Lì si abituò all’altezza e si trovò meglio. La scena da girare era il lento montaggio del fucile con i pezzi che il protagonista teneva in vari scomparti di un giaccone. Quando fu pronto, col silenziatore innestato, rimase immobile per creare la “suspense”, nell’attesa che la vittima uscisse da un portone scortato da poliziotti. Dei piccioni giravano in cielo e ogni tanto si posavano accanto a noi tubando. Alla fine lo sparo, il veloce smontaggio dell’arma e la fuga da una scala di servizio. Questa scena fu copiata innumerevoli volte in altri film e telefilm. Arrivò da Roma anche un giovanissimo Franco Nero che aveva un piccolo ruolo. Suggerii a Prosperi di aggiungere una scena in cui il protagonista attraversava in macchina il ponte e scopriva N.Y. come l’avevo vista io. Mi feci anche accompagnare da Grey lungo il fiume per vedere quel favoloso ponte dal basso, immaginavo che sarebbe stato suggestivo. Ci arrivammo a fatica perché c’erano da tempo sull’ argine dei lavori in corso ma ne valse la pena. Trovai il punto giusto da cui si vedeva il ponte in tutta la sua maestosità sullo sfondo dei grattacieli. Tornammo all’imbrunire a girare quell’inquadratura che risultò spettacolare e fu montata nel film. Qualche tempo dopo i pubblicitari la copiarono per la pubblicità della Gomma del Ponte.
Lasciata New York ci fermammo a Parigi, il copione prevedeva alcune scene da girare in vari posti lungo la Senna, in un dancing e in un motel con piscina in cui avveniva una sparatoria. Il protagonista veniva colpito e si trascinava in un bosco perdendo sangue. Girammo nel Bois de Boulogne. Prosperi voleva una ripresa che oggi si può girare facilmente con la steadycam, un attrezzo con cui l’operatore porta la cinepresa attaccata a un corpetto, con delle molle che ammortizzano e assorbono i movimenti, sembra un carrello aereo. Allora era impensabile. La cinepresa avrebbe dovuto seguire i piedi dell’attore vedendo le gocce di sangue cadere sulle foglie. Pensai e ripensai e alla fine mi venne l’idea. Mi feci legare la cinepresa al polso, l’assistente mi aiutò, me la fece impugnare per avere l’inquadratura voluta e camminai dietro all’attore che con un contagocce faceva cadere il sangue davanti ai suoi piedi. Fu perfetta, quando uscì il film ricevetti delle telefonate da colleghi che vollero sapere come era stata girata. Una enorme gru?, una teleferica? Una barella? No, rispondevo, un pezzo di spago. Il film, “Tecnica di un omicidio” costò poco più di 100 milioni, incassò un miliardo ed ebbe anche delle ottime recensioni. Potevamo essere soddisfatti.
La produzione volle fare il bis e nacque un nuovo progetto, c’era già un copione ma a Prosperi non piacque e si ritirò. Il produttore mi interpellò chiedendomi di trovare qualche giovane aiuto regista da far esordire. Pensai a un aiuto che avevamo avuto con Salce per molti film. Lo consigliai e firmarono il contratto. Il nuovo film era “Assassination” , da girare a N.Y. e in Germania, ad Ambugo. Il protagonista era Henry Silva. Anche questo film, nonostante un copione ingarbugliato, spesso incomprensibile, ebbe successo, per cui nacque il terzo progetto da girare tutto a S. Francisco. Ricordo con molto piacere questa città pulita, piena di sole, anche se alle volte arrivava dall’oceano un nebbione da pianura padana che però durava poco. Tentammo tra l’altro di girare con l’elicottero una scena che stava per finire male, il pilota, si era incautamente avvicinato a un canyon dove c’era una forte corrente, aveva perso il controllo, ci stavamo per rovesciare, la fortuna volle che il vento diminuisse dandoci il tempo di uscirne incolumi. Pensai, mai più in elicottero, invece…
Anche questo film incassò, anche se di meno, e nacque un nuovo progetto. Veramente fui io a portare al produttore un libro giallo di uno scrittore americano, un certo Demaris, che mi era piaciuto molto. Comprò i diritti del libro, mi fece un contratto e partii per un film di Fulci. Al mio ritorno ebbi una sorpresa, la storia era piaciuta al punto tale che due produzioni e un distributore si erano associati per produrlo. Il soggetto e il mio contratto passarono alla nuova produzione. Però avevano imposto un altro regista, Montaldo, e il budget era triplicato. Il nuovo regista pretese grossi nomi di attori americani e il costo lievitò ancora. Era la storia di un delinquente impersonato da John Cassavetes, che voleva rapinare un casinò di Las Vegas di proprietà della mafia. Teneva in un capannone, nei pressi del casinò, la divisa e una macchina dei pompieri. Entrava nel casinò come un qualsiasi cliente giocatore, ponendo delle piccole bombe incendiarie in vari punti. Poi, vestito da pompiere, appena scoppiate le bombe, nel fuggi fuggi generale sarebbe entrato nel casinò a svuotare la cassa prima dell’arrivo dei veri pompieri. In seguito veniva scoperto, braccato e…
La produzione ci mandò a fare i sopralluoghi a Los Angeles e a Las Vegas. La prima sorpresa fu che a Las Vegas appena scesi dall’aereo bisogna passare attraverso file interminabili di slot. E fui stupefatto vedendo quegli enormi casinò e la quantità di gente che ci va a passare il fine settimana per giocare ai tavoli e per vedere gli spettacoli di Parigi. In un albergo c’era lo spettacolo del Moulin Rouge, in un altro il Lidò e i più famosi cantanti si esibivano nei grandi alberghi, vedemmo Sinatra al Sand. Fotografai tutto, i tavoli da gioco, le slot machine, i bar, com’era vestita e pettinata la gente, tutto quello che poteva servire a Roma allo scenografo, agli arredatori, ai costumisti e ai truccatori. A Los Angeles trovammo le location per alcune scene, poi tornammo a Roma. In base alle mie foto fu costruito in un teatro enorme, il più grande d’Europa, un casinò in piena regola con la reception, il bar, i tavoli da roulette, dadi, i croupiers e le slot machine. Cominciammo a girare con gli attori, decine di comparse e il personale del casinò. Il protagonista giocava ai tavoli dei dadi da cui dominava tutta la sala. Logicamente lasciammo da girare alla fine le scene degli scoppi. Arrivò il giorno in cui dovevano scoppiare le bombe. Gli artificieri avevano preparato gli scoppi nei punti stabiliti. La prima bomba era in una casella della posta che il protagonista aveva messa nel posare le chiavi. Per questo primo scoppio c’erano quattro macchine da presa in posizioni diverse per avere un ricco materiale da montare. Al comando “motore!” le macchine cominciarono a girare, al comando “azione!” scoppiò la bomba. Le comparse, come era stato provato, cominciarono a fuggire, gli artificieri con le bombole antincendio aspettavano lo “stop” per intervenire, ma Montaldo tardava a dare lo stop e quando si decise era troppo tardi, avevano preso fuoco tutte le caselle e la parete di legno e in pochi istanti il fuoco era indomabile. Si propagò velocissimo a tutta la scena mentre le comparse e il personale, questa volta terrorizzate sul serio cercavano di uscire dal teatro. I tre operatori portarono in salvo le loro cineprese, io staccai la mia dal cavalletto e con un assistente continuai a girare con la macchina a mano l’incendio che aveva preso ormai tutta la costruzione. Il fuoco produceva un rombo pauroso.
Ero convinto di girare delle cose straordinarie per il montaggio. Quando cominciarono a caderci addosso i pezzi infuocati corremmo alla porta ma la trovammo chiusa, non sapendo che eravamo ancora dentro avevano chiuso tutte le porte per cercare di soffocare le fiamme. Urlammo e prendemmo a calci la porta ma il rombo dell’incendio era tanto forte che non ci sentivano. Alla fine un mio assistente si rese conto che non ero uscito, aprirono la porta e ci fecero uscire semi-intossicati. I pompieri non poterono entrare negli studi perché il passaggio era ostruito dalle macchine della troupe e delle comparse. In quindici minuti per l’enorme calore crollò il tetto del teatro, il casinò era ridotto in cenere. Il giorno seguente la produzione ci mise di corsa su un aereo per Los Angeles e Las Vegas per girare gli esterni. Volevano evitare che ci interrogassero, sarebbe emerso che la scena era tutta altamente infiammabile e l’assicurazione non avrebbe pagato. Per la stessa ragione, con mio grande disappunto, fecero sparire anche la pellicola che avevo girato durante l’incendio, rischiando grosso. Montaldo sostenne che l’incendio l’avevo causato io mettendo troppe luci!
A Las Vegas in ogni albergo si entra dal casinò che bisogna attraversare per andare nelle stanze, è difficile sfuggire alla tentazione di infilare gli spicci in una slot machine. Era venuta con me mia moglie che con le mogli del regista e del direttore di produzione, fecero gruppo e stavano tutto il giorno al casinò a giocare, perdendo delle cifre. A Las Vegas non si vince, vince sempre il banco. Invece una sera, finite le riprese, infilai gli spicci in una slot e vinsi un paio di dollari. Incoraggiato dalla vincita continuai a giocare i due dollari e giocai per un paio d’ore finché capitò la grossa vincita. Grossa per modo di dire, erano cento dollari, però si mise a suonare una sirena, si accesero molte luci lampeggianti, suonarono le trombe e in un attimo arrivarono il poliziotto, lo sceriffo e un direttore del casinò il quale mi chiese: “Where are you from” – “Italy” risposi. “Roma?” – “Roma.” “Quando va Roma dice tutti Vegas possible vinci. OK?”  Mi diede novanta dollari in banconote e un sacchetto per metterci dieci dollari in monetine che pesavano almeno un chilo. Andai trionfante a svegliare mia moglie che aprì un occhio, si rigirò e continuò a dormire.
Dopo Las Vegas andammo a Los Angeles dove girammo le scene del protagonista braccato dagli uomini della mafia. Dovevamo girare delle scene di notte. Sennonché Montaldo ebbe un attacco di sciatalgia e Cassavetes, che aveva già fatto il regista in più di un film, si offrì di dirigere alcune scene. Io ero un po’ preoccupato perché avevo notato che si metteva in bocca di nascosto delle pasticche che sapevo essere amfetamine. Infatti disse per prima cosa all’operatore di prendere la macchina a mano e di seguirlo girando. Avevo fatto illuminare un pezzo di strada ma lui continuò ad andare avanti nel buio, lo fermai e lo feci tornare nella zona illuminata, ma lui entrò in un portone pretendendo che la macchina lo seguisse. La conclusione fu che girammo tanta pellicola ma il materiale era tutto da buttare. Il direttore di produzione si mangiò le mani. Rigirammo le scene il giorno dopo con il regista.
Nel frattempo a Roma l’architetto fece costruire in un altro studio alcuni angoli del casinò, al nostro ritorno potemmo girare le scene mancanti per completare il film. Il capannone del teatro, non fu mai ricostruito, sono tuttora visibili le mura periferiche in Via Tiburtina, in parte utilizzate per un centro commerciale.