Così scriveva qualche anno fa un autorevole critico cinematografico americano.
Il film più famoso e più visto in tutto il mondo, tra quelli fatti con Di Venanzo è certamente “I soliti ignoti” di Monicelli, copiato, imitato ma mai uguagliato. A questo punto devo fare una confessione: l’aiuto regista mi diede il copione e mi misi a leggerlo. A metà pensai: “che film strano, secondo me sarà un fallimento”. E’ chiaro che non avevo capito niente, non avevo ancora l’esperienza per poter capire i valori comici di una sceneggiatura. Ho cominciato a capire andando in proiezione a vedere i giornalieri. Monicelli era un maestro di comicità.
Alla fine del film mi sono sposato. Ho conosciuta mia moglie durante le riprese di un film “Un ettaro di cielo”. Ci siamo frequentati durante “La sfida”, ci siamo innamorati durante “La legge è legge” e ci siamo sposati alla fine de “I soliti ignoti”, abbiamo concepito nostra figlia durante “Rascelmarine” ed è nata appena finito “Quel maledetto Imbroglio”. Vita e film si sono sempre incrociati, com’è normale per chi fa questo tipo di lavoro. A quel tempo non esistevano le liste di nozze, la troupe aveva fatto una colletta, col ricavato ci potemmo comperare un bellissimo frigorifero, era l’unica cosa che ci mancava. Il nostro matrimonio è stato molto semplice, era aprile, pioveva a dirotto, la chiesa era sull’Appia antica, la sposa era bellissima col vestito bianco prestatole da un’amica, io vestivo un abito di sartoria fumo di Londra, il mio testimone era Di Venanzo, il testimone della sposa era un parente calabrese, c’erano i nostri quattro genitori, i fratelli e le sorelle, infine uno stuolo di indossatrici amiche della sposa. Di fronte alla chiesa c’era un bel localino dove facemmo il rinfresco a base di cioccolato caldo e ottimi dolci. Eravamo in tutto una ventina. Il pomeriggio stesso partimmo in macchina per la Versilia e la riviera ligure. Il nostro matrimonio durò circa tredici anni, finché una malalingua riferì a Marina che avevo avuta una storia. In parte era vero anche se era una storia assolutamente ininfluente. Fu inflessibile e mi chiese di andarmene. Lasciai la bellissima casa di Viale Liegi e andai a stare in Via di Ripetta. Ero dispiaciuto ma sollevato, il “menage” di Viale Liegi non mi piaceva più. Era diventata una bisca in cui si giocava a poker molto spesso e fino a tarda notte. Continuai a vedere i miei figli dedicando loro i fine settimana, forse stavo con loro più di prima. Mia moglie si curò della separazione, degli avvocati, lasciai a lei la parte burocratica. Quando mi chiese l’annullamento alla Sacra Rota acconsentii e andai a dichiarare davanti a tre corvi neri che non avevo mai creduto nell’indissolubilità del matrimonio. Tornai celibe a tutti gli effetti e mi sarei potuto risposare, ma non ci ho mai pensato. Mia moglie, invece, si risposò con un vedovo molto ricco e vissero felici e contenti davanti ai tavoli verdi di tutti i casinò d’Europa. Poi lui morì prematuramente per un tumore.
Tornando al film di Monicelli, posso dire che la lavorazione fu veramente divertente, avere tanti famosi attori tutti insieme non capita spesso. Con Gassman avevamo già lavorato agli inizi in un film di un regista americano, un certo Sherman, girato a Bergamo e passato inosservato. Con Mastroianni le “Cronache”, alla Cardinale facemmo il suo primo provino dopo il quale fu scelta ed esordì come sorella di “Ferribotte”. Con Salvatori e “Capannelle” era il primo film, Totò lo conoscevamo da “La legge è legge” di Christian Jaques con lo stupendo Fernandel. E poi una deliziosa Gravina giovanissima, Memmo Carotenuto, per girare la morte del quale ci fu un problema. Monicelli voleva l’effetto che Carotenuto finisse veramente sotto al tram, lo scenografo non sapeva come fare, fecero un meeting per trovare la soluzione, ma le varie proposte erano difficilmente realizzabili. A me venne l’idea giusta, la dissi e il problema fu risolto in poco tempo e con la minima spesa. Lo scenografo non mi parlò più per tutto il film. Ne fui dispiaciuto, non era mia intenzione metterlo in difficoltà ma soltanto rendermi utile.
Nel frattempo era nata la televisione, ma i televisori costavano troppo, erano alla portata di pochi, finché la Rai cominciò a mandare in onda “Lascia o raddoppia”, programma talmente fortunato che tutti i cinema si attrezzarono con i televisori in sala, il film veniva sospeso e gli spettatori guardavano questo programma. Ci fu una diminuzione delle presenze nei cinema, che i gestori non riuscirono mai più a ricuperare.
In quegli anni girammo tanti altri film, “Lo scapolo” di Pietrangeli con Sordi che fece una memorabile litigata sul set col produttore per una questione di compensi. Con Antonioni “Il grido” considerato il suo capolavoro, ricordo il gelo di quelle campagne della bassa ferrarese perennemente coperte di brina se non di ghiaccio. Ma era sempre Antonioni, lavorare col quale era esaltante per la sua sicurezza e la sua classe. “Un ettaro di cielo” con Mastroianni e Rosanna Schiaffino, unico e delizioso film di Aglauco Casadio, sceneggiato in collaborazione con Tonino Guerra. In questo film conobbi quella che poi divenne mia moglie. Faceva, con un’amica che le somigliava, la donna a due teste, nel baraccone di un piccolo Luna Park montato in mezzo alle paludi. Un fine settimana andammo a fare una gita a Venezia e lì nacque una certa simpatia. Finite le sue pose, tornò a Roma per continuare a fare l’indossatrice e ci vedemmo qualche settimana dopo, alla fine del film. Poi “Urlatori alla sbarra” di Lucio Fulci con i massimi cantautori di allora, Mina, Celentano, Bindi, Meccia e altri. “Nel blu dipinto di blu” con Modugno, girato nel ghetto. “Gli sbandati” e “ I delfini” di Maselli. A proposito de “Gli sbandati” che stavamo finendo di girare nella villa Toscanini a Crema, successe che Maselli in una scena in cui Lucia Bosè aveva un primo piano, disperata per la partenza del camion in cui erano chiusi i partigiani, volle che i ragazzi stessero dentro il camion. Sosteneva che la Bosè avrebbe recitato meglio sapendo che nel camion c’erano veramente i ragazzi. Faceva un freddo cane, la scena la fece ripetere un’infinità di volte, alla fine facemmo scendere i ragazzi che corsero a riscaldarsi nella villa. Uno di loro, Montaldo che era uno del nostro gruppo dei genovesi, si sentì male, appena finito il film lo portai in macchina a Genova dai suoi, che lo curarono per una grave polmonite.
Altri film di quel periodo furono “Suor Letizia” di Camerini, con la Magnani, con la quale andavo molto d’accordo. Era la storia di un gruppo di suore che vivevano in un convento a Ischia occupandosi di bambini in parte trovatelli. Suor Letizia si affeziona particolarmente a uno di questi, il più discolo, che sparisce e la fa stare in pena. Ho notato anche in altri film che quando c’è di mezzo un bambino, le attrici diventano più calme, più dolci. La Magnani, di solito impaziente, combattiva, mai soddisfatta (sono famose le sue liti con registi, produttori e colleghi), in questo film era sempre serena, affrontava le difficoltà delle riprese con assoluta calma, col bambino aveva una pazienza infinita. Non era la solita Magnani, sembrava un’altra, sempre bravissima attrice ma con una sensibilità diversa. “La sfida”, storia di camorra nei mercati generali di Napoli, esordio di Francesco Rosi, in cui era evidenziata la rigida disciplina che regola i mercati generali di Napoli per cui bisogna seguire certe antiche leggi che non è possibile trasgredire. Invece il protagonista vuole guadagnare molto e subito, ignorando le regole della camorra. Ma viene inesorabilmente stroncato.
“Le ragazze di S. Frediano” di Zurlini, tratto anche questo da un romanzo di Pratolini, ambientato in una Firenze di giovani. Zurlini mi disse già durante la preparazione che dovevamo usare la testata a manovelle come gli americani, in Italia non la usava quasi nessuno. Io presi una testata a Cinecittà, la provai per qualche giorno, non era facile, una manovella serve per inquadrare in alto o in basso, l’altra per inquadrare a destra o a sinistra. L’affare si complica per i movimenti combinati. Quando fui sicuro di cavarmela bene la ordinai per il film. Partimmo per Firenze. Prima scena, in collina, Pian dei Giullari, davanti a una villa, di notte. Zurlini fa mettere un carrello sulla strada, si siede sul seggiolino e dà il via agli attori per fare una prova. Gli attori vengono verso la macchina da presa e poi girano a destra come lui aveva detto, lui cerca di seguirli ma inquadra dalla parte opposta. Seconda prova idem, gli attori vanno a destra e lui inquadra a sinistra i piedi del macchinista. A quel punto Zurlini si alza e urla: “Che cazzo di testata è questa, non funziona, portatela via” tra lo sghignazzare di tutti . Non la volle più vedere , anch’io dovetti usare la testata normale. Inoltre aveva la fissa del dolly, voleva imitare Blasetti. Perdevamo delle ore a fare complicatissimi movimenti col braccio del dolly per girare delle scene che si sarebbero potute girare meglio con delle leggere panoramiche se non addirittura con delle inquadrature fisse.
Sicuramente ne dimentico qualcuno, ma sono una trentina i film girati con Di Venanzo in nove anni. Veramente ci fu anche uno scambio di film. Saremmo dovuti partire per Amburgo per il film di Rosi “I magliari”, con Sordi, ma mia moglie era in stato interessante di mia figlia e se fossi partito non sarei stato presente alla nascita della bambina. Proposi un cambio: un mio collega che Di Venanzo conosceva, avrebbe potuto sostituirmi ad Amburgo, io avrei sostituito lui in un film che Pietro Germi stava per iniziare, “Quel maledetto imbroglio” con il direttore della fotografia Leo Barboni. Tutti accettarono la proposta, a me non dispiacque fare un’esperienza diversa con persone diverse. Mi trovai benissimo sia con Germi che con Barboni, ambedue belle persone. Successe il contrario che con Zurlini, Germi era sospettoso verso questa testata a manovelle che non aveva mai usata, ma mi lasciò fare, cercando il primo giorno di mettermi in difficoltà. Preparò una scena in uno stretto corridoio del commissariato in cui alcuni agenti correvano su e giù da una stanza all’altra. Feci una prova, Germi mi chiese “Ce la fai?” io risposi “va tutto bene” e lui “guarda che se hai bisogno di un’altra prova, la facciamo” e io “non è necessario” benché fossi leggermente emozionato. All’ “azione” girammo la scena, e Germi mi guardò incredulo. Io dissi “Ottima” e la fece stampare. Il giorno dopo andammo in proiezione, e vide che era perfetta. Mi disse “Ho capito che sei veramente bravo” e io mi sentii qualche centimetro più alto. Alla fine del film ognuno riprese il suo posto.
Ma venne il giorno in cui dovetti prendere un’importante decisione, un produttore mi propose di esordire nella fotografia con il film di un regista già noto come attore di cabaret e teatro, Luciano Salce. In effetti il mio non era un esordio, qualche anno prima, tra un film e l’altro ero riuscito a girare un mediometraggio con la regìa di Gillo Pontecorvo. Prodotto da Giuliani, che ormai era diventato produttore a tutti gli effetti, con un finanziamento venuto dalla Germania est, era la storia di uno sciopero a rovescio. Le operaie di un opificio tessile di Prato si chiudevano in fabbrica continuando a produrre, per protestare contro il licenziamento di alcune di loro. Questo mediometraggio, interpretato dalle operaie stesse non è mai uscito nel circuito normale ma è visibile all’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio che lo ha proiettato spesso nell’ambiente sindacale. Durante questo lavoro ebbi un tenero “flirt” con la protagonista, un’operaia tessile deliziosa, bella, sembrava una madonna del Botticelli.
Fu una decisione molto sofferta. Di Venanzo mi stimava molto sia come operatore che come amico, quando due film si sovrapponevano lasciava a me quello da finire e prendeva un sostituto per iniziare quello nuovo. Non avrebbe mai cambiato operatore di sua iniziativa, ne sono assolutamente certo. Sull’altro piatto della bilancia c’era la mia “voglia” di cimentarmi con le luci, di verificare la mie capacità di essere come lui, abile nei rapporti e nelle trattative, sicuro nelle decisioni e padrone di fronteggiare le difficoltà sul set. Mia moglie mi incoraggiò a esordire perché sapeva che mi sarebbe piaciuto e perché il compenso sarebbe raddoppiato. C’era il problema di dirlo a Di Venanzo che non sapevo come l’avrebbe presa. Fu infatti molto seccato quando gli proposi due colleghi che mi avrebbero potuto sostituire, mi rispose che se lo sarebbe trovato da solo un nuovo operatore. Finì così, un po’ male. Però mi diede ascolto e scelse uno dei due operatori che gli avevo proposto. E feci la fortuna di questo collega perché Di Venanzo girò da allora in poi una serie straordinaria di film importanti con Antonioni, Fellini, Rosi, Petri e tanto per citarne qualcuno: “L’eclisse”, “La notte” ,“8 e mezzo”, “Giulietta degli spiriti”, “Salvatore Giuliano”, “Le mani sulla città”, “La decima vittima”.