Genova non mi sembrò a prima vista una città molto ospitale, anzi, a ripensarci, se ho mai trovato qualcuno che mi ha dato una mano, non erano genovesi. Mi misi a cercare lavoro, la mattina facevo il fotografo da spiaggia, d’estate arrivavano i milanesi ai quali faceva piacere essere fotografati al mare, ragazzi e ragazze della Milano bene, tutti ottimi clienti. Il pomeriggio andavo a Cornigliano in uno studiolo di un simpatico bolognese a sviluppare e stampare le foto dei dilettanti. Per un certo periodo insegnai il tedesco a un ragazzo siciliano il cui padre, produttore di agrumi, voleva che il figlio trovasse clienti in Germania per esportare i suoi aranci. Ma non erano molto corretti, in ogni lettera promettevano che seguiva un omaggio di un chilo di riso e un litro d’olio. Invece mandavano questo pacco omaggio solo a quelli che facevano l’ordinazione.
Sulla spiaggia feci amicizia con Alberto Zoboli che era allora un ragazzo di belle speranze, patito di teatro, alle volte faceva qualche particina al Teatro di Genova, ma era sempre in bolletta. Il padre, proprietario di una scuola privata voleva che continuasse gli studi ma lui non ne voleva sapere, voleva fare teatro e basta. Facevamo grandi chiacchierate passeggiando sul lungomare, lui amava parlare di teatro, io di cinema, ma siccome io guadagnavo qualche soldo, mi chiedeva regolarmente cento lire per le sigarette o per il tram. Organizzammo pure con altri dilettanti uno spettacolo alla filodrammatica di Pegli, mettemmo in scena una vecchia farsa, “La zia di Carlo”, facemmo un pienone. Anni dopo lo rincontrai a Roma, faceva una particina in un film, si chiamava Alberto Lupo, era molto elegante in smoking, mi salutò appena.
Fotografai bambini e matrimoni, scuole ed eventi sportivi, tutto quello che capitava. Feci le foto pubblicitarie dei prodotti Elah, caramelle e cioccolatini, compreso il famoso budino. Andavo sù e giù tra Pegli, dove abitavamo, Cornigliano e Genova, su tram sempre gremiti e sognavo un motorino per muovermi più agevolmente. Feci anche domanda per entrare al Centro Sperimentale di Cinematografia a Roma ma mi risposero che ci voleva la laurea. Anni dopo ebbi la soddisfazione di essere chiamato al Centro a tenere delle lezioni.
Un giorno seppi che un tale, proprietario di una obsoleta macchina da presa, faceva provini a dei giovani promettendo una carriera nel cinema. Era naturalmente una truffa a questi ragazzi ma mi offersi come aiutante, lo feci per qualche mese, mi servì per fare pratica con quella vecchia cinepresa.
Una società cinematografica francese venne a Genova per realizzare un film ambientato nel porto “Le mura di Malapaga”. Il regista era Renè Clèment, il protagonista Jean Gabin. Chiesto il permesso di assistere alle riprese, stetti a guardare incantato ogni cosa, osservando ogni particolare. Un giorno, durante la pausa, osai mettere l’occhio al visore della macchina da presa professionale, ma non vidi nulla, ci rimasi molto male ma feci finta di niente, in seguito scoprii che per vedere attraverso l’obbiettivo bisognava spostare una leva. Comunque vidi come funzionava una vera produzione cinematografica e sognavo già di poterne fare parte.
Partiti i francesi, mi sentivo sicuro e mi offersi come apprendista in una società che produceva servizi di attualità per il cinegiornale “Incom”, mi assunsero come giornaliero. Guadagnavo mille lire per ogni giorno di lavoro. L’operatore titolare era marchigiano, all’inizio mi faceva solo portare la batteria e mi trattava malissimo ma subivo pur di imparare. Dopo qualche settimana, visto che ormai avevo una certa esperienza, mi mandavano da solo a riprendere le partite di calcio e guai se perdevo un gol, avevo a disposizione due pizze di pellicola da undici minuti per ogni tempo, dovevo usare il mio intuito per non perdere i gol, altrimenti erano strilli quando la sera riportavo il girato. Riprendevo anche le inaugurazioni, gli arrivi e le partenze dei transatlantici. Non era ancora iniziata l’epoca del trasporto aereo, si viaggiava per mare, i poveri emigranti per andare in America in terza classe con le valige di cartone, i ricconi americani e argentini prendevano i transatlantici di lusso per venire a visitare l’Italia.
In quell’ambiente conobbi un certo Giuliani, un ex partigiano che veniva spesso alla società per convincere il dirigente a produrre un servizio per il cinegiornale sui lavori pericolosi nel porto di Genova. Morivano troppo spesso operai e scaricatori per le scarse misure di protezione, come i muratori che cadevano dai ponteggi. Il servizio non fu mai realizzato, per opposte opinioni sindacali, ma rimase tra noi una reciproca stima. In quel periodo a Genova il clima politico era molto caldo, dopo l’attentato a Togliatti le manifestazioni di protesta si susseguivano per problemi politici o sindacali. La polizia di Scelba aveva un gran daffare, intervenivano le jeep per disperdere i dimostranti. Giuliani mi telefonava, ci incontravamo in piazza De Ferrari, mi consegnava una piccola cinepresa che poi seppi essere del PCI, io mi buttavo nella mischia a riprendere i caroselli della polizia, il lancio dei lacrimogeni e le randellate ai dimostranti. Ero diventato abile a schivare i manganelli, non sono mai riusciti a colpirmi. Non capivo bene a cosa potessero servire quelle riprese, Giuliani mi diceva: “archivio”. Un paio di volte mi portò alla sede del PCI, io osservavo un po’ distaccato tutto quel gran movimento negli uffici. Rimanemmo sempre in contatto.
Qualche mese dopo mi propose di fare le riprese per un documentario sulle colonie montane del Comune di Genova, a Gressoney, con la regia di Carlo Lizzani, giovane aiuto regista venuto da Roma, ancora sconosciuto. Fu un lavoro molto piacevole, i bambini erano chiassosi ma simpatici, le accompagnatrici erano divertite e disponibili.
Finito questo lavoro tornai a fare il fotografo finchè Giuliani mi disse che stava arrivando a Genova una produzione romana per girare un film sulla guerra partigiana e che c’era per me la possibilità di fare l’assistente operatore. Non mi sembrò vero, sarei entrato a far parte del vero cinema. Il regista era Lizzani al suo esordio nella regia, la fotografia l’avrebbe curata un altro esordiente, Gianni Di Venanzo che aveva però al suo attivo, come operatore, film come “La terra trema” di Visconti e “Miracolo a Milano” di De Sica. Cinema vero. Questo film si chiamava “Achtung Banditi” ed era la storia di una squadra di partigiani che doveva compiere una missione in territorio presidiato dai tedeschi. Il gruppo dei partigiani era composto da ragazzi aspiranti attori, scelti da Lizzani a Genova, da Roma erano venuti gli attori principali, Andrea Checchi, Lamberto Maggiorani che era stato il protagonista di “Ladri di biciclette” di De Sica, la protagonista femminile era Gina Lollobrigida poco più che ventenne, bellissima. Ero molto emozionato anche per il fatto che per la prima volta avrei guadagnato un settimanale discreto, anche se poi seppi che era la metà di quanto avrebbe guadagnato un assistente di Roma. Se tutto fosse andato bene sarebbe potuto essere l’inizio della carriera che avevo sempre desiderata. Perciò mi accinsi a dare il massimo. Noi reclute dormivamo in una baracca di legno montata a nord di Genova, nei pressi dei luoghi dove avremmo girato. Il giorno si mangiavano panini, la sera in una mensa degli ex partigiani.
Mi piaceva l’affiatamento tra i reparti, la professionalità e la capacità di tutti a risolvere ogni problema e a superare le difficoltà. Nelle riprese si presentavano spesso degli imprevisti ma venivano affrontati senza drammatizzare, si trovava sempre una soluzione. I tecnici, particolarmente gli attrezzisti, tiravano fuori dalle loro casse le cose più impensate. Tutto veniva risolto serenamente e spesso scherzosamente. C’era il capo macchinista che non faceva altro che raccontare aneddoti sul cinema, aveva lavorato spesso con Rossellini che per lui era un mito. Una storia che raccontò fu quella di un direttore di produzione che, per accontentare Rossellini, andò a chiedere alla proprietaria di una villa lussuosa sulla costiera amalfitana, il permesso di girare una scena nel parco. Ci volle del bello e del buono per convincere la signora a dare il consenso “Baronessa, le do la mia parola d’onore che entreranno al massimo due persone con una piccola macchina da presa” disse. Avuto finalmente il permesso, appena andata via la signora, si sentì un ordine: “Fate entrare gli elefanti!” Se non è vera è verosimile, quando la produzione era povera ci si arrangiava in tutti i modi.
Qualcuno mi disse che ero fortunato a esordire in una troupe come quella, c’erano film in cui tutto andava storto, produttori improvvisati, sceneggiature poco chiare, registi inesperti o troppo esigenti, attori capricciosi, tecnici incapaci. Ho capito che il lavoro prosegue ininterrotto e si rispettano i piani di lavorazione, quando alla preparazione hanno partecipato tutti i reparti in pieno accordo. Ma basta che un reparto non funzioni e il lavoro si inceppa e ci vogliono ore per rimediare. Negli anni seguenti mi è capitato di tutto, film che accumulavano ritardi mandando a gambe all’aria le previsioni di spesa, risultati scadenti nel tentativo di ricuperare situazioni compromesse, brutti film costati moltissimo, film belli costati poco.
Ma torniamo al nostro film. Le riprese durarono cinque mesi, gli spostamenti erano faticosi, le attrezzature a quel tempo erano molto pesanti, faceva sempre molto freddo ma io non lo sentivo, ero troppo felice. Saputo che ero anche un buon fotografo mi diedero l’incarico di fare anche le fotografie di scena che sviluppavo e stampavo la notte nella baracca che avevo attrezzato. Non dormivo mai. Il lavoro principale era l’assistenza alla macchina da presa, come avevo visto fare agli assistenti francesi. Avevo la mia piccionaia, così chiamata perché sembrava una cassa per allevare piccioni, era effettivamente una cassa di legno con due buchi ma con dei manicotti di stoffa nera nei quali si introducevano le braccia per maneggiare la pellicola vergine, caricare e scaricare i magazzini della cinepresa, il tutto al buio completo. Questo lavoro lo dovevo fare nel minimo tempo perché non mancasse mai la pellicola da impressionare. Spesso la piccionaia stava sul camion, lontana dal set, dovevo fare delle lunghe corse avanti e indietro. E talvolta qualche bontempone della troupe mi veniva a fare il solletico sapendo che non avrei mai tirato fuori le braccia rovinando ore di lavoro e centinaia di metri di pellicola costosa. Nella piccionaia c’erano anche i boccioni con gli acidi per lo sviluppo e ogni tanto Di Vennanzo mi chiedeva di sviluppare delle strisce di pellicola per il controllo delle luci.
Tanti anni dopo successe a un mio assistente che, con le mani dentro la piccionaia gli si srotolasse un rullo di pellicola girata e più cercava di metterla a posto e più gli si ingarbugliava. Lo feci mettere di peso su un camion con le braccia infilate nella piccionaia e portare nella camera oscura del laboratorio dove lo aiutarono a riavvolgere il rullo. Era tanto imbarazzato che voleva lasciare il cinema ma gli diedi fiducia e lo convinsi a rimanere. “Abbiamo risolto” gli dissi, “non ci pensare più”.
Il lavoro più impegnativo era tenere a fuoco gli attori durante la ripresa, in questo mi furono utili gli anni di fotografia. Un paio di volte alla settimana si andava in proiezione in un cinema, dopo l’ultimo spettacolo. Si visionavano le scene girate nei giorni precedenti. Era per me un’emozione vedere sullo schermo le scene in movimento chiare e nitide, qualche volta ero terrorizzato se non erano a fuoco, ma era sempre l’operatore di cabina che a quell’ora non aveva più voglia di correggere il fuoco. Qualche domenica facevo una scappata a casa per raccontare ai miei del mio nuovo lavoro e per farmi una bella dormita. Un giorno Lizzani, sapendo del mio passato, mi coinvolse, mi fece fare la comparsa, vestito da soldato tedesco delle SS, dovevo andare a sequestrare ai contadini una cesta di uova e un maialetto. Non potei rifiutare anzi, mi divertii a fare l’SS nella finzione cinematografica.
Alla fine delle riprese, mentre si preparavano a tornare a Roma, Di Venanzo mi disse che era contento di me e che se avessi voluto sarei potuto venire a Roma per finire le riprese in teatro di posa. Dissi immediatamente di sì e qualche giorno dopo partimmo per Roma. Eravamo in quattro, io, Giuliani, un attore, un certo Montaldo e un aiuto regista. Arrivati a Roma ci sistemammo a Monte Mario, affittammo alcune stanze presso una certa signora Emilia, una pensionata non più giovane, molto elegante e molto gentile. Una domenica mattina, mentre gli altri erano usciti, entrò nella mia stanza per portarmi il giornale e mentre stavo leggendo a letto mi saltò addosso, fui tanto sorpreso che non reagii e forse anche per non offenderla, la lasciai fare continuando a leggere il giornale. Da allora in poi non ebbi più pace, appena gli altri uscivano, mi catturava con ogni sotterfugio e mi costringeva a fare sesso, era insaziabile, persino la notte, mentre gli altri dormivano entrava nella mia stanza. Provai a farla smettere, ma mi ricattò, minacciando di cacciarci via tutti, e questo sarebbe stato un problema perché gli altri si erano sistemati e abituati a stare in quel quartiere e gradivano le ottime colazioni che lei ci preparava la mattina. Perciò dovetti accettare la situazione sperando di trovare una via di uscita. Capitò tempo dopo quando Giuliani ci trovò un appartamento a Porta Pia nel quale ci trasferimmo tutti.
Anni dopo mi successe una cosa simile a Torino, giravamo “La suora giovane”, dal libro di Arpino, era di notte, una giovane signora si avvicinò e mi disse che era stata suora anche lei, ma adesso faceva la maestra di pianoforte, mi invitò a salire da lei per bere un bicchiere, io accettai benché fossi stanco dopo una giornata di lavoro, inoltre non ero abituato a bere, perciò dopo un bicchiere crollai a dormire su un divano. Nel dormiveglia mi resi conto che si era vestita da suora, sotto il vestito niente, mi stava spogliando e… La mattina tornai in albergo un pò sconvolto, ma divertito.