In quel periodo conobbi Anna, una ragazza orfana di entrambi i genitori, erano quattro sorelle che vivevano in subaffitto in una stanza nella vecchia Padova, avevano un’affittuaria terribile che non faceva che strillare dalla mattina alla sera. Anna lavorava in un ufficio, la sera andavo a prenderla in bici e ce ne andavamo a fare lunghe passeggiate o al cinema, ma per stare nell’intimità, avendo la chiave del negozio di mobili, approfittavamo per usare un divano e stare comodi. Non ho mai saputo se quel divano sono poi riusciti a venderlo. Di università non se ne parlava più, ero tutto preso dalla fotografia, da Anna e dal cinema. Già da ragazzino andavo al cinema, anche se durante il fascio non si potevano vedere i film americani, mi piacevano quelli italiani e tedeschi. “La corona di ferro” di Blasetti mi aveva entusiasmato, lo vidi tre volte di seguito. Anche il primo film a colori tedesco mi aveva incantato, era il “Barone di Munchausen”, mi si era aperto davanti un nuovo mondo. A Padova mi intrufolavo nel cinema per i soldati inglesi e vidi i primi film americani a colori, poi ne vidi tanti altri nei cinema normali. E già c’era in me una pallida voglia di fare quel lavoro. Oltre alle foto che facevo per sopravvivere andavo in giro fotografando suggestive nebbie e scorci di boschi e strade e piazze e la gente per la strada. Ormai non vedevo più le cose come prima, vedevo delle inquadrature, ogni cosa che guardavo la vedevo già come fotografia, anche le cose più banali le racchiudevo in rettangoli orizzontali o verticali. Questo mi fu utile anni dopo per fare l’operatore, i registi apprezzavano le inquadrature molto precise oppure originali e mi è utile anche quando dipingo.
Al Pedrocchi conobbi dei ragazzi che frequentavano un cine-club e si riunivano qualche volta a parlare di cinema, mi invitarono a casa di uno di loro. Tra l’altro raccontarono che il cine club l’aveva fondato un ragazzo, un certo Covi, che aveva collaborato alla lavorazione di un documentario sulla montagna abbinato al film “Pastor Angelicus”, sulla vita di Papa Pacelli. Mi ricordai che con la scuola ci avevano portato a vedere quel film e il documentario mi aveva particolarmente colpito per le bellissime riprese sulle montagne. Mi dissero che quel ragazzo non faceva più parte del cine club e l’avevano perso di vista. A me interessava molto conoscerlo, avrei forse avuto qualche notizia sul documentarismo in Italia. Qualsiasi aggancio poteva essermi utile. Perciò rintracciai la famiglia, ma mi dissero che il figlio si era fatto gesuita e viveva in un convento in un paesino nei pressi di Vicenza. Ma non mi arresi, decisi di andarci e un giorno presi il treno, qualche treno cominciava a funzionare. Arrivato a Vicenza seppi che il convento dei gesuiti era nei pressi di Lonigo a una quindicina di chilometri. Non c’era nessun mezzo, perciò me la feci a piedi. In un paio d’ore arrivai a questo convento e conobbi padre Covi, un simpatico trentenne che fu molto gentile, però non mi potè dare notizie utili, entrato in convento non si era più occupato di cinema. Sempre a piedi me ne tornai a Vicenza un po’ deluso e presi il treno per Padova. Ma la cosa più bella era il mio amore per Anna. Non ero mai stato così innamorato, appena la vedevo uscire dall’ufficio sentivo un tuffo al cuore. Quando arrivò la primavera andavamo lungo gli argini, nei boschi e a sdraiarci sui prati a sognare e a fare progetti. Quando prese le ferie partì con le sorelle per stare due settimane a fare i bagni al Lido di Venezia, ma dopo un paio di giorni non resistetti, presi la bicicletta e corsi come un pazzo per fare in tempo a prendere il vaporetto per il Lido. Era in una pensioncina, quando la vidi mi sentii mancare dalla felicità. “Ti si mato!” mi disse, ma le brillavano gli occhi. Mi fermai solo una notte, la mattina ripartii per Padova in bicicletta.
Venne il giorno in cui anche i miei genitori dovettero lasciare la nostra villa che ci era stata confiscata dalla Jugoslavia come risarcimento per i danni subiti a causa dell’occupazione fascista. Tutti i beni degli italiani di Fiume, Istria e Dalmazia passarono alla Jugoslavia di Tito. Il governo italiano di allora aveva fatto ampie promesse che questi beni sarebbero stati risarciti dallo Stato perché era giusto che tutti gli italiani che per anni avevano inneggiato a Mussolini e alla guerra pagassero per l’aggressione alla Jugoslavia e non soltanto i cittadini esuli dalle terre perdute. Anni dopo, quando si cominciarono a fare i conteggi sapemmo che il valore dato a quei beni era calcolato in base al loro valore del 1938. Enorme truffa perché dal ‘38 al ’45 il valore della lira era dimezzato. Comunque nei seguenti 30-40 anni gli esuli furono in parte risarciti con cifre irrisorie. Inoltre, molti esuli, in questi cinquant’anni, per reazione al comunismo di Tito non hanno fatto altro che piagnucolare nei loro squallidi giornaletti che dovrebbero essere la Croazia e la Slovenia a risarcire i profughi, restituendo il maltolto. Niente di più assurdo!
I miei genitori, dovendo scegliere un posto dove andare a vivere, abituati a una città di mare, decisero di andare a vivere a Pegli, nei pressi di Genova, in subaffitto presso una famiglia. Appena sistemati mi chiesero di raggiungerli, ma io ero tanto legato ad Anna che trovai mille scuse per rimanere a Padova ancora qualche mese. Quando non potei più tergiversare mi arresi e decisi di partire con la morte nel cuore. Dissi un giorno ai miei che avrei voluto sposare Anna. “E come pensi di mantenere una moglie?” mi chiese mio padre, ma non avevo una risposta. Capivo il suo problema, dopo aver perso tutto quello che aveva raggiunto in tanti anni di lavoro e trovandoci tutti in una situazione piuttosto precaria, ci saremmo caricati di nuovi problemi. Non potevo dargli torto. A quei tempi i profughi avevano la possibilità di viaggiare con il foglio di viaggio rilasciato dalla questura, approfittai un paio di volte per tornare da Anna. Ma una volta Anna decise di venire a Genova a trovarmi. Prenotai una stanza nel più bell’albergo di Pegli e l’andai a prendere alla stazione. Appena arrivati in camera, tra baci e lacrime mi disse che la nostra storia, benché bellissima, era finita. Si era fidanzata con un ragazzo di famiglia ricca, la cui madre l’aveva presa a benvolere, cosa che lei, orfana da piccola, aveva sempre desiderato. Benché capissi che le ragioni pratiche erano più forti del sentimento, ma sempre innamorato, decisi che senza Anna non volevo più vivere. Mi sentivo straziato, vuoto, che cosa sarebbe stata la mia vita senza Anna? Dopo averla riaccompagnata al treno andai alla spiaggia, nuotai più lontano possibile, più a fondo possibile tentando di affogare, ma il pensiero dei miei genitori me lo impedì, tornai alla spiaggia pensando che forse la vita mi avrebbe riservato ancora qualcosa di buono.
Negli anni seguenti tornai a trovarla, sia da Genova che da altri posti dove mi portava il lavoro, seppi che il ragazzo l’aveva lasciata per andare in Sudamerica, ma capii che la nostra storia era comunque finita. Seppi anni dopo che si era sposata, trasferita a Milano e aveva dei figli. Ho sempre sperato che in tutti questi anni, leggendo forse alla televisione i titoli di qualche film che ho fatto, abbia letto il mio nome e abbia ricordato quanto ci siamo amati. La sua fotografia sta da sessant’anni sulla mia biblioteca, la trovo ancora bellissima.