La guerra era iniziata ma ancora lontana, ci furono alcuni bombardamenti, in uno di questi morì sotto le macerie la più bella ragazza del liceo, procacissima bruna di origine siciliana, indimenticabile. All’uscita dal liceo, lo struscio sul corso prima di tornare a casa non era più lo stesso senza il suo incedere regale. Iniziò l’oscuramento della città, dall’imbrunire bisognava tenere chiuse le finestre coperte di carta nera affinché non trapelasse neanche un filo di luce. Le macchine avevano i fari dipinti di nero, tranne una fessura che consentiva di illuminare la strada per pochi metri. In caso di emergenza si usciva con delle piccole torce a pila. Eventuali bombardieri non avrebbero vista la città, però nei pochi bombardamenti che ci furono, facevano scendere col paracadute dei potentissimi candelotti al magnesio che illuminavano a giorno la città.
La fame regnava sovrana sulla nostra tavola, c’era poco da mettere sotto ai denti, avevamo sempre fame. L’entroterra della mia città era carsico, molto povero, sui sassi cresceva molto poco. Mia madre andava a fare la spesa con la tessera annonaria con i punti, cento grammi di pane a testa al giorno, mamma divideva con la bilancia in cinque parti il filone di pane, poi toglieva una fetta dalla sua razione e la dava a me, mia nonna faceva lo stesso per mia sorella. Un giorno dissi a mia madre: “quando finisce la guerra voglio tutti i giorni sul tavolo una montagna di panini imbottiti”. In tale attesa facevo chilometri in bicicletta per andare in collina a cercare un po’ di latte e qualche uovo. Niente carne, qualche volta un po’di pesce azzurro, al posto del caffè si trovava il Karkadè che veniva dall’Abissinia, mancavano lo zucchero, l’olio, la farina, mancava tutto. Eravamo tutti magrissimi. Il piatto base era riso bollito con piselli secchi, tutte le sere, alle otto. Lo chiamavamo “Lili Marlen” come la canzone che la radio tedesca suonava tutte le sere, alle otto. Poi finirono anche i piselli. La canzone continuò.
All’ora di ginnastica ci consigliarono di iniziare un corso di attrezzistica, e ci convocarono in palestra. Venne un giovane gerarca in divisa che ci fece una dissertazione sull’importanza dell’uso degli attrezzi. “Si svilupperà il vostro collo” disse, “il collo potente farà cadere ai vostri piedi tutte le ragazze, le ragazze sono attratte dal collo taurino, sarete dei torelli, dei conquistatori di femmine”. Comincio’ il corso, mi piaceva andarci un paio di volte a settimana, preferivo gli esercizi alla sbarra e alle parallele. In classe cercavo di capire se le mie compagne notavano il mio collo, ma si mangiava tanto poco e il mio collo era sempre uguale, il medico di famiglia mi riscontrò un soffio al cuore e mi consigliò di smettere. “Riprenderai quando potrai mangiare abbastanza” disse e dovetti lasciar perdere il collo taurino.
“Non toglietevi le scarpe, dobbiamo andare alla scuola di Torretta a vedere papà” ci disse un giorno mia madre quando tornammo da scuola,“stamattina è arrivato l’ordine del Prefetto che tutti gli ebrei maschi dai diciotto anni in su, si devono presentare subito in questa scuola elementare, papà è lì già dalle dieci”. Andammo a prendere il tram e poi a piedi fino a questa scuola un po’ fuori mano. C’era una folla, erano le famiglie degli ebrei chiusi nella scuola. All’ingresso stazionavano militari e camicie nere per non far uscire nessuno. Mio padre e tanti altri si affacciavano a turno alle tre finestre di un’aula e cercavano di farsi vedere per tranquillizzare le famiglie. Ci fecero segno che non avevano pranzato, perciò tornammo a casa a prendere qualcosa da mangiare e poi di nuovo lì che era ormai sera per portare loro almeno la cena. Tra le famiglie in attesa di sapere perché e per come, nessuno aveva notizie certe, “no se sa gnente… no i ga deto gnente…” si mormorava. Pareva fosse un’iniziativa del Prefetto Testa, su consiglio del Segretario Federale, di carcerare tutti gli ebrei in previsione di non si sa che cosa, forse di consegnarli ai tedeschi. Sapemmo al loro ritorno a casa, che l’ordine era di rinchiuderli nelle carceri di Fiume, ma non essendoci posto sufficente avevano requisito questa scuola di Torretta. Erano circa quaranta persone, onesti cittadini trattati come delinquenti comuni, dovettero togliere le cinture e i lacci delle scarpe, dormivano su dei pagliericci stipati tutti insieme dentro un’aula.
I primi giorni alcuni militari facevano la spola per portare loro il cibo delle famiglie, poi arrivarono i pasti dalla cucina del carcere. Fecero venire anche un barbiere. Dopo otto giorni ne mandarono a casa una parte, tra cui mio padre, altri furono trattenuti un paio di settimane e poi mandati al confino in zona di Salerno e in Calabria. Sapemmo dopo anni che un certo dottor Parlatucci della Questura di Fiume si diede molto da fare affinché questi ebrei non fossero consegnati ai tedeschi. Quando mio padre tornò a casa ne sapeva meno di noi, nessuno si era presentato per spiegare la ragione di questo “arresto coatto”, alla fine lo avevano semplicemente fatto uscire senza alcuna spiegazione. Quando arrivò a casa era in uno stato pietoso, povero papà, licenziato e carcerato. Non si lavava e non si cambiava da più di una settimana. Dopo qualche giorno stava apparentemente bene ma essere stato arrestato come un delinquente gli aveva lasciato un’ angoscia dentro, un ricordo incancellabile.
Il progetto di Hitler di battere l’Unione Sovietica per impossessarsi dei suoi giacimenti petroliferi stava svanendo. L’America non poteva stare a guardare, era intervenuta in forze e non avrebbe permesso che la Germania nazista occupasse tutta l’ Europa e magari anche il Medio Oriente ricco di giacimenti petroliferi.
I bombardamenti erano ormai all’ordine del giorno, Milano, Torino, Roma, per non parlare della Germania dove alcune città erano ormai ridotte in macerie.
Passavano tantissimi aerei sopra la nostra casa, diecine e diecine di fortezze volanti che venivano da sud per sganciare il loro carico mortale in Austria vicino a Vienna dove c’era un’ importante industria bellica. Non ci facevamo più caso, io mi divertivo a contarli, erano belli da vedere, volavano a squadriglie di dieci in formazione a triangolo. Un giorno mentre ero sul balcone per vederli, il primo della squadriglia lasciò cadere un fumogeno , quelli che lo seguivano, arrivati al punto del segnale di fumo cominciarono a sganciare le bombe, le vedevo benissimo cadere a grappoli. Rimasi bloccato dalla paura, a quel punto non avrei potuto fare niente, non avrei fatto nemmeno in tempo ad avvertire la mia famiglia, le bombe sarebbero arrivate prima di poterci muovere. “Siamo tutti morti” pensai, immaginando le case distrutte, fiamme e distruzione in tutto il quartiere. Non sentii le esplosioni, dopo qualche ora seppi che le bombe erano finite nel mare prospicente la zona industriale. Non lo dissi ai miei perché li avrei allarmati inutilmente.
In vari punti della città stavano scavando delle gallerie per creare dei rifugi in caso di bombardamenti americani. Questi rifugi erano molto lontani da casa nostra, perciò mio padre un giorno decise di scavare una galleria nella roccia dietro la villa per ricavare un piccolo rifugio antiaereo. Fu un lavoro massacrante, era roccia calcarea durissima, con piccone, mazza e scalpelli riuscimmo in qualche mese di lavoro a fare una piccola galleria di circa tre metri, sufficiente a proteggere noi e le nonne. Il peggio era portare via con la carriola il pesantissimo materiale di scavo.
L’Italia aveva invaso la Jugoslavia, l’Albania e la Grecia, finalmente avevamo un Impero e il Re era diventato anche re d’Albania e imperatore d’ Etiopia. Altre medaglie, altri nastrini, altre coccarde sul petto dei gerarchi. Tutti felici e più tronfi di prima. Ma l’euforia durò poco. Il 25 luglio del ’43 cadde il fascismo e tutto cambiò. I fascisti erano scomparsi da un giorno all’altro, non c’era più un fascista in giro. “Chi, fascista mi, no, par carità, dovevo meter la divisa e basta.” Così dicevano tutti. Ma quando parlava Mussolini erano tutti in piazza a sentire i discorsi dagli altoparlanti e alla fine tutti in coro a cantare gli inni fascisti. Sparirono divise, coccarde e nastrini. L’ 8 settembre fu firmato l’armistizio, l’esercito italiano si arrese e i tedeschi invasero l’Italia e i Balcani. Davanti a casa nostra ci fu un breve scambio di cannonate tra i tedeschi e la resistenza jugoslava, tornata la calma uscimmo da casa e vidi per la prima volta un soldato tedesco morto, sdraiato vicino alla sua mitragliatrice, era molto giovane, sembrava che stesse sorridendo ma c’era un buco nell’elmetto. Riemersero i fascisti, rimisero la camicia nera e il fez, nacque la repubblica di Salò, nacquero le brigate nere. Li chiamarono repubblichini, si unirono ai tedeschi e quello che fecero nei Balcani lo si seppe dopo mesi. A Fiume accompagnavano le SS ad arrestare le famiglie degli ebrei delle quali non si seppe più nulla fino alla fine della guerra. A ogni squillo di campanello io e mio padre ci arrampicavamo su un muro dietro la villa e ci nascondevamo nel giardino di una villa adiacente, temendo l’arrivo dei fascisti con i tedeschi. Al cessato allarme mia madre ci faceva scendere, andò avanti così per mesi. I miei amici jugoslavi non mi volevano più vedere, ero anch’io un nemico, mi consideravano, in quanto italiano, un fascista invasore. Continuavo a frequentare il liceo, dovevamo fare l’esame di maturità, mancavano pochi mesi. A maggio finì la scuola, tutti promossi agli scrutini, senza esame. Una pacchia.
La guerra
adolescente
rifugio antiaereo 1943
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