Orgoglio in musica: Intervista a Stefano Mainetti

di Giuliano Tomassacci

L’elevato consenso riscosso dalla fiction Orgoglio, ultima produzione di casa Rai diretta da Giorgio Serafini e Vittorio De Sisti, promuove alla giusta attenzione la figura di Stefano Mainetti, che ha composto per lo sceneggiato una partitura di grande respiro e idoneità. Nato a Roma, dove ha frequentato gli studi accademici, il compositore si è specializzato in musica da film presso la UCLA di Los Angeles, mantenendo aperto in seguito il contatto con gli Stati Uniti per collaborare ad alcuni lungometraggi di genere action. Sofisticato chitarrista (lo score di Orgoglio propone alcuni assaggi della sua notevole tecnica) oltreché orchestratore e direttore d’orchestra delle proprie partiture, Mainetti si inserisce oggi nell’elite dei compositori nazionali maggiormente capaci di un trattamento orchestrale ragguardevole, sensibile all’originalità della componente melodica tanto quanto alla funzionalità della manipolazione ritmica. Alle spalle di un tale traguardo c’è un tirocinio affidato con umiltà alla scuola dei generi, grazie alla quale Mainetti ha limato la propria scrittura in piccole produzioni legate a storici nomi del ‘low-budget’ italiano come Fulci, Mattei, D’Amato.


Distogliendo momentaneamente l’attenzione dai preliminari compositivi dell’annunciato seguito di Orgoglio, Mainetti si è offerto a Colonne Sonore per un ricca ricapitolazione retrospettiva tra vita professionale, musica da film e passione cinematografica.

M° Mainetti, già da bambino lei desiderava comporre per il cinema...

Strano ma vero, soprattutto perché non provengo da una famiglia di musicisti. Mi regalarono una chitarra quando avevo cinque o sei anni e non ho più smesso. Finché si trattava di un hobby erano tutti molto contenti ma poi i miei genitori, vista la mia crescente passione, hanno pensato bene di farmi studiare musica: così ho frequentato per dieci anni il corso completo di chitarra classica. Già dalle elementari, gli insegnamenti del maestro Giorgio Caproni, che oltre ad essere stato uno dei più grandi poeti del ‘900 era anche violinista, hanno contribuito alla formazione della mia sensibilità musicale. A 18 anni, dopo il liceo, nel momento della scelta, i miei genitori si sono spaventati non conoscendo l’ambiente musicale, avrebbero preferito indirizzarmi verso un lavoro dalle basi più solide. Così ho continuato, frequentando parallelamente sia la Facoltà di Scienze Politiche che il Conservatorio, dove, a quel punto, studiavo composizione. La mia immediata predisposizione alla musica cinematografica l’ho capita solo in seguito, quando ho realizzato di essere sempre stato attratto dal Melodramma, inteso proprio nel senso di Camerata de’ Bardi, quei mecenati che ai tempi di Lorenzo il Magnifico, rifacendosi in qualche modo ai precedenti tentativi dei Greci, decisero di accorpare le varie forme d’arte. Se si vuole al giorno d’oggi questo può essere rapportato al cinema: l’Opera è l’espressione massima del Melodramma, ma quello contemporaneo può essere facilmente interpretato come un musical o come un film, come la fusione delle Arti. E questa ha stimolato in me l’attrazione per la "non specificità" della musica da film. La poliedricità, la vastità, la possibilità di poter spaziare a 360 gradi all’interno di un’unica professione.

Al conservatorio naturalmente questa propensione alle colonne sonore deve essere cresciuta esponenzialmente, magari incentivata dai suoi studi con Franco Piersanti.

Con Franco ho studiato, per un breve periodo, contrappunto e orchestrazione. Lo considero uno dei più grandi compositori italiani di musica da film e, anche se lo stile è una cosaassolutamente personale, sono sempre rimasto affascinato dalla sua scrittura, che mi è sempre piaciuta, fin dalle partiture per i film di Nanni Moretti. La mia esperienza nel mondo delle colonne sonore comunque si è sviluppata parallelamente agli studi in Conservatorio, infatti ho cominciato a scrivere molto presto. Intorno ai vent’anni ho composto le musiche per un documentario su Fellini diretto da Ernesto Laura, Il sogno di una città. Avevo già finito il corso di chitarra ma gli studi di composizione erano appena cominciati. Ho studiato fino alla metà dei trent’anni perché facendo l’Università ritardavo gli esami in Conservatorio e viceversa. Poi sono andato negli Stati Uniti dove sono stato ammesso alla UCLA di Los Angeles grazie agli esami conseguiti in Italia. Alla Facoltà di Musica ho seguito un Master di perfezionamento in musica da film.

A distanza di anni, come giudica l’esperienza del master losangelino?

E’ un panorama fantastico, assolutamente sconosciuto in Italia. Si è trattato di una duplice esperienza. Da un lato loro hanno il pregio di calarti immediatamente nel mondo del lavoro: chi frequentava economia e commercio, per esempio, qualche volta si trovava Kissinger a fare lezione.

Nel caso della musica da film, poteva succedere di avere come insegnante Jerry Goldsmith e, intanto, nella facoltà di acting, sempre all’interno dell’Istituto, c’erano degli studios in cui Spielberg sviluppava alcuni progetti. Avevamo modo di eseguire i nostri compiti con un’orchestra che poi magari si spostava al Sony Studio per suonare una colonna sonora di Williams. Dall’altra parte c’era la possibilità di bussare alle varie case cinematografiche e proporre i propri provini. Il grande vantaggio è che lì ogni produzione, piccola o grande che sia, ha il proprio settore per le colonne sonore e ti rispondono sempre, anche se nella maggior parte dei casi si tratta di un: "Grazie, ci sentiamo la prossima volta". E’ stato così che ho ottenuto il mio primo incarico per un film americano.

Considerando la sua notevole formazione accademica e l’approccio stilistico adottato per la sua ultima fatica, lo score di Orgoglio, non stupisce affatto che la partitura in questione risulti dominata da forti e ispirati stilemi classicheggianti. In particolare il suo innato interesse verso il citato Melodramma deve avere rappresentato un riferimento di ispirazione esclusivo...

Orgoglio è ovviamente basato su un impianto estremamente classico e volutamente si è andati a spingere su registri diretti, dove il melò fosse dichiaratamente presente, sia dal punto di vista della recitazione e della scrittura che dal punto di vista della musica. Lo stile musicale doveva essere quello dei primi del ‘900, di facile presa, che arrivasse dritto allo spettatore. Era una sfida da accettare, rischiando anche di essere prolissi, ma credo che se si fosse scelta un’altra strada – magari passando alla raffinatezza del minimalismo – sarebbe stato come non accettare la sfida e affrontare l’incarico marginalmente. Noi invece siamo andati dentro e la dimensione orchestrale credo lo dimostri. Si è accettato lo stile classico in tutto e per tutto, soprattutto armonicamente: l’impianto è, per l’appunto, quasi operistico, melodrammatico, la scrittura, ovviamente, è strettamente tonale, nel rispetto di quei canoni.

C’è poi qualche passaggio più oscuro, come il Valzer di Herman.

Si, è un pochino più moderno, anche perché doveva distaccarsi dagli altri personaggi visto che lui è il più complesso nella sceneggiatura. Nel suo tema ci sono delle implicazioni armoniche menosemplici che rispecchiano esattamente il personaggio: un uomo estremamente complicato, un persona intelligente ma infida, assolutamente inaffidabile ma capace di farsi voler bene. Una personalità complessa che si insinua nelle strutture della storia. In questo caso la scelta del 3/4, che è un tempo notoriamente diabolico, è stata mirata e specifica, avulsa e non simpatetica rispetto al contesto armonico e ritmico del tema principale.

Emerge un lavoro fortemente tematico, qual è stata la sua tecnica compositiva?

Ho avuto il vantaggio di lavorare con Goffredo e Guido Lombardo, i produttori della serie, con cui collaboro da circa quindici anni attraverso la Titanus. Goffredo è un produttore vecchio stile che si occupa di tutto: ti mette sotto torchio ma ti dà la possibilità – ed è uno dei pochi in Italia – di cominciare a lavorare da subito sulle musiche, già in fase di sceneggiatura. In questo modo, inevitabilmente, le idee vengono fuori meglio, se non altro si entra in sintonia l’uno con l’altro, ci si raffronta con gli sceneggiatori, con i registi, si visita il set, un sistema usato spesso negli Stati Uniti. La tematicità del lavoro è nata dall’attenzione riversata sui personaggi per individuarli da un punto di vista musicale, lavorando senza immagini. Si facevano delle proposte di lettura cercando di sottolineare le varie personalità. Va detto che la scelta tematica è un po’ rischiosa, perché ci si può ritrovare con troppi temi che poi, nello sviluppo della storia possono essere utilizzati in contrappunto grazie a dei ritorni, degli incastri, delle variazioni che entrano ed escono da un tema all’altro. L’altro rischio, facendo questo tipo di lavoro tematico sui personaggi o sulle situazioni, è quello di rimanere un po’ settoriali soprattutto perché è difficile, senza avere il montato a disposizione, individuare una trama musicale unica, quella che poi si identifica nel tema principale dell’orgoglio – da qui il titolo della fiction – il motivo in Mi minore che scorre sui titoli di coda.

Analizzando il Suo processo compositivo per la serie riesce ad indicare un tema la cui genesi si è dimostrata maggiormente faticosa rispetto agli altri?

E’ sempre la ricerca del tema principale, in questo caso proprio quello dell’orgoglio, a suscitare le maggiori difficoltà. Intanto bisogna tenere presente che si sta lavorando per la televisione e in questo settore ci sono due correnti di pensiero: una tende ad avvicinare il cinema alla televisione prendendo in considerazione i traguardi della stereofonia, dell’alta definizione, del 5.1 e via dicendo. L’altra è la corrente che guarda di più all’Auditel e insegna che il pubblico a casa ha meno tempo e meno concentrazione, bisogna quindi rendere quello che si vuole dire in poche battute. Sono vere entrambe le cose. Vedere un film in televisione può essere stupendo come al cinema, perfetto in tutto e per tutto – ma stiamo parlando di un film di Spielberg, magari. Con una fiction italiana, regolata dalle leggi della concorrenza con le altre emittenti e dal calcolo dello share, si tende ad essere più diretti. Allora bisogna trovare una frase musicale che in pochi secondi renda l’idea del tutto.

Questa è stata la fase più difficile – ma lo è sempre – e cioè cercare di racchiudere in poche battute il pensiero della sintesi della sceneggiatura in modo da poter dare allo spettatore la possibilità di avere in pochi secondi un effetto che, per lo più, è psico-acustico. In pochi riescono a realizzarlo, ma subliminalmente questo messaggio arriva attraverso la musica, se sei stato bravo, se sei riuscito a trasmettere la sensazione del tutto

In fase di registrazione erano presenti entrambi i registi della serie?

Purtroppo no, perché siamo andati a registrare a Sofia con la Bulgarian Symphony Orchestra mentre i registi erano ancora impegnati in una fase avanzata, ma non finale, delle riprese. Fortunatamente, come già detto, ho avuto un forte rapporto di pre-produzione con la Titanus che mi ha permesso di utilizzare idee e appunti fondamentali per la concertazione finale.

Si tratta di una pratica affermata negli States...

Certo, è soprattutto un fatto economico. Considerando la situazione italiana, i nostri costi rispetto a quelli americani possono essere tranquillamente paragonati ad un rapporto di uno a dieci: negli Stati Uniti ci sono colonne sonore che arrivano a costare il 5% dell’intero budget. Mi è capitato di vedere orchestre ferme in sala durante la produzione del film, solo in attesa che le idee si sviluppassero. Il compositore prendeva degli appunti, il regista quando aveva tempo andava in sala e ascoltava qualcosa, magari a vuoto o con un giornaliero solo per proporre la sostituzione di un clarinetto con un flauto e poi andarsene. Anche se l’orchestra rimane ferma, ogni musicista viene pagato 400 dollari a turno.

In Italia allo stesso modo si potrebbero realizzare tre colonne sonore. E non è solo una questione di pregio, loro hanno dalla propria parte anche il fatto che le pellicole vengono esportate al 99%, soprattutto per motivi di lingua e di mercato.

La sua esperienza statunitense rappresenta un capitolo di primaria importanza nella sua carriera. Da quale film ha preso le mosse e in che modo?

La prima esperienza è stata con The Shooter ed è direttamente scaturita dal mio continuo ‘bussare’ alle produzioni indipendenti di cui parlavo prima. Kotcheff era già un regista di grande fama, una persona di un’intelligenza e di una sensibilità unica, fra l’altro diplomato in violino. Per il film ricercava una musica dall’impianto orchestrale e probabilmente è per questo motivo che i miei provini lasciati in produzione hanno sortito il giusto effetto. Sin dall’inizio c’è stato un rapporto molto forte, ci siamo subito confrontati sullasceneggiatura e sui primi giornalieri. La colonna sonora poi è stata registrata in Italia con l’Orchestra della Scala di Milano.

E con Mulcahy?

Con Mulcahy c’è stato un rapporto diverso, la musica richiesta era molto più moderna e questo soddisfaceva la mia voglia di girare a 360 gradi. C’è una forte influenza elettronica in tutte le partiture che ho scritto per Russell, ma non solo. Silent Trigger, ad esempio, un film di fantascienza che strizza l’occhio all’horror, ha delle fortissime influenze etnichemiste ad un impianto orchestrale molto forte. Rimase soddisfatto e mi chiamò anche per il film successivo, Talos the Mummy con Christopher Lee. Il tema era quello egizio, la scoperta di una mummia, quindi l’intervento doveva essere più classico ed orchestrale, anche se poi le influenze elettroniche non mancano, soprattutto quando la storia si sviluppa verso la parapsicologia.

Ted Kotcheff, vista l’efficacia e la qualità caratterizzanti le partiture da Lei proposte per i suoi lungometraggi, ha dichiarato che la Sua musica non sfigura affatto accanto a quella composta da nomi come Goldsmith, Horner e Myers, artisti precedentemente impegnati in alcuni film da lui diretti. Ha mai ricevuto richieste stilistiche che andassero nella direzione di questi compositori?

Spesso, più che a specifiche richieste, gli americani fanno ricorso ad una temp-track, un’arma a doppio taglio. Lo fanno perché in fase di prevendita all’estero non possono presentare ai distributori il film nudo e crudo, allora gli legano una musica provvisoria e hanno un sound designer e un music supervisor specializzato proprio nelle temp-track. Sinceramente preferisco non avere questa traccia perché se da una parte ti aiuta, dall’altra può farti correre il rischio di sederti e vincolarti. Quando mi sono trovato incastrato in queste situazioni ho cercato di evitarle. Una scena con due musiche differenti può cambiare completamente la percezione finale, può avere un ritmo serrato con una musica e può averne uno più blando con un’altra, senza cambiare un fotogramma. Bisogna stare molto attenti. Nel mio caso sono stato fortunato perché ho lavorato con registi di grande esperienza musicale. Prima di lavorare con me Ted aveva collaborato con Stanley Myers e Russell con Jerry Goldsmith. Ricordo ancora che unavolta a casa di Russell trovai esposta una partitura di Goldsmith autografata: ero giovanissimo e sentii il peso dalla responsabilità.

Da esponente direttamente coinvolto nel panorama musicale hollywoodiano, cosa ne pensa dell’attuale situazione di quell’ambiente? E, oltre a Goldsmith, ci sono altri compositori che stima particolarmente?

Il panorama americano è talmente vasto che lascia spazio a tutto, esistono anche dei geni assoluti come Williams. Di recente stavo riascoltando la partitura di A. I. - Artificial Intelligence, musica di una rara bellezza, unica, scritta con amore, sentimento e capacità. Ci sono naturalmente altri compositori americani che adoro, per esempio Dave Grusin, bravissimo jazzista, uno dei miei preferiti – un altro che non segue le mode, ha uno stile talmente personale e granitico che non subisce condizionamenti. Trovo invece che l’abitudine di questo ambiente alla super-specializzazione, questo voler dividere i settori in microparti genera situazioni incredibili: c’è lo specialista nel dirigere solamente il tema d’azione in tempi composti, c’è l’orchestratore addetto esclusivamente alle big band di un determinato periodo, e via dicendo. Alla fine diventa una collaborazione di più persone che lavorano sulla stessa partitura con una perfezione tecnica assoluta, ma con una personalità che tende ad essere latente. Ecco, questo è il limite.

Entrando nella prassi del Suo comporre: solitamente utilizza collaboratori in fase di orchestrazione?

Orchestro in coppia con Riccardo Biseo, uno dei più grandi cervelli musicali italiani in assoluto, un musicista e jazzista preparatissimo, oltreché mio caro amico. Collaboriamo insieme da quindici anni e spesso orchestriamo insieme, soprattutto quando c’è poco tempo e gli organici sono molto grandi. Altre volte invece orchestro da solo, magari per lavori che si sviluppano con una forte influenza elettronica e piccoli gruppi musicali.

Da sempre Lei dirige personalmente le sue partiture. Ricorre spesso alla tecnica dei ‘click’?

Per quanto riguarda i temi d’azione molto ritmati, faccio sempre ricorso ai click, soprattutto per motivi di vincoli di scena: una scena d’azione di un minuto può richiedere anche 50 sync, quindi il click diventa un punto di riferimento imprescindibile. Per i temi lenti e drammatici, che richiedono un respiro orchestrale maggiore piuttosto che il sincrono da cartone animato, utilizzo delle ancore che ho sulla partitura nel momento in cui dirigo con le immagini sul monitor: mi impongo un margine, se oltrepasso troppo questi riferimenti, ricomincio. In Orgoglio per esempio ho adoperato entrambi i metodi. In generale comunque bisogna rispettare la ‘parola’ e quindi, indipendentemente dal sync, bisogna orchestrare in maniera funzionale la musica rispetto al dialogo.

Prima delle produzioni mainstream e delle grandi orchestre, all’inizio del Suo viaggio nella musica da film, c’erano i progetti low-budget, film come Zombi 3 e Quella villa in fondo al parco dove il ricorso all’elettronica più che una scelta stilistica rappresentava forse un’esigenza assoluta...

Partire con piccole produzioni indipendenti è un passo fondamentale, perché devi arrangiarti con i pochi mezzi disponibili e allora, veramente, inizi a tirare fuori i conigli dal cilindro. Credo che la musica elettronica sia un grande aiuto, un’innovazione degli ultimi vent’anni. Non si deve confondere la musica elettronica che emula l’orchestra con quella che genera suoni non riproducibili. Anche se i campioni orchestrali sono sempre migliori non raggiungeranno mai la veridicità di sessanta cuori che battono. Ben venga invece la seconda ipotesi, perché ci sono dei registri che non possono essere assolutamente coperti in nessun modo dagli strumenti di un’orchestra: si riescono a creare suoni che non esistono in natura e che danno allo spettatore una sensazione non raggiungibile in altro modo. In definitiva, comunque, se la musica è scritta bene funziona sempre. Non bisogna confondere le idee con il grande approccio orchestrale.

Tra le sue composizioni extra-cinematografiche spiccano i lavori per il Papa e per Madre Teresa di Calcutta. Come è scaturita questa collaborazione e cosa ha determinato il particolare approccio ai due progetti?

Per il CD Abba Pater, uscito nell’anno del Giubileo, a cui ho collaborato insieme al Maestro De Amicis, ho scritto due brani. Un’esperienza incredibile. Tutto è partito da Radio Vaticana, che cercava una chiave di lettura musicale per il messaggio del Santo Padre, una musica che avesse delle connotazioni multietniche ma anche un’inclinazione alla colonna sonora, vista la necessità di descrivere figurativamente la parola del Papa. Fecero quindi dei provini. Non ne facevo da una ventina d’anni ma, vista l’occasionè...

Il mio pezzo piacque molto e così ne scrissi anche un altro. Questo disco ha venduto benissimo e continua ad andare bene. Il lavoro per Madre Teresa di Calcutta è successivo, un’esperienza diversa dove ho avuto la possibilità di sperimentare con Internet, attraverso un sito di San Francisco si può essere messi in comunicazione con tutti gli strumentisti del mondo che possiedono la stessa interfaccia ed è possibile passare la propria partitura ad un musicista per sentirla eseguita in tempo reale. Così ho fatto un disco con le strumentazioni più strane, in collegamento con Berlino, San Francisco, Israele e Genova.

Cosa c’è nell’agenda di Mainetti?

Innanzitutto Orgoglio 2, di cui sto attualmente preparando i playback di scena. Poi ci sarà l’uscita di un mio disco in Spagna, la colonna sonora di una serie, Planeta Encantado – una via di mezzo tra il documentario e il telefilm – che sta andando benissimo sulla TV spagnola. Dopodiché ci sono delle proposte dagli Stati Uniti, ma siamo ancora in fase di sceneggiatura.

Bernard Herrmann ha detto: "Una colonna sonora vivrà più a lungo di qualunque altra forma di musica". Lei cosa ne dice?

Herrmann è sempre stato uno dei miei compositori preferiti in assoluto. La sua affermazione può essere vera, perché se ci si concentra sulla multimedialità del mezzo, oltre la partitura resta il disco, oltre il disco resta il film. In generale, poi, una buona pellicola è un loop che si autoalimenta continuamente dove il risultato è maggiore della somma delle singole parti: se la sceneggiatura, la musica e la regia funzionano, lo spettatore non vede tre ma vede trenta.

Personalmente credo che comporre colonne sonore, e in generale musica, sia la cosa più bella: poter tradurre i propri sentimenti in note genera sensazioni molto profonde, qualcosa di molto vicino all’amore.

E’ un lavoro che auspicherei a tutti.

Pubblicata su ‘Colonne Sonore – Immagini tra le note’ n.6 – Maggio / Giugno 2004

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