Cultura

Il castigliano è una delle lingue più diffuse nel pianeta; tra il Settecento e l'Ottocento, quando una Spagna in decadenza riusciva a malapena a imporre la lingua nazionale sulle evolute lingue regionali (catalano, basco, galiziano) e dialetti della peninsola, il castigliano diventava, all'altro capo del mondo, la lingua franca che permetteva di comunicare tra di loro immigrati di decine di diverse nazionalità. Il castigliano è così evoluto come una lingua senza metropoli, in linee paralelle di una grande ricchezza: innesti africani nei Caraibi, substrato checiua nelle Andi, scontro e mutua influenza con l'inglese nel Messico e nel Centroamerica, influenze portoghesi, africane, genovesi, francesi e italiane nel Río de la Plata. Queste linee tendono a convergere nel Novecento, con l'industria editoriale, il cinema, e infine la televisione, come tessuto connettivo. [più sulla lingua]

Per più di mezzo secolo Buenos Aires fu la maggiore città di lingua castigliana del mondo, il centro internazionale dell'industria editoriale (poi spostato verso México DF, Barcelona e Madrid), della radiofonia, della industria discografica, del teatro, mentre il Messico deteneva l'egemonia del cinema e poi della televisione.

Le traduzioni argentine del Novecento educarono intere generazioni di intellettuali spagnoli, ai quali fecero conoscere il pensiero anticonformista e ribelle del mondo, che le successive ditatture spagnole vietavano. In questo contesto si sviluppò una letteratura argentina vivace e nervosa, che ebbe nel racconto breve e nel poema i principali strumenti. Jorge Luis Borges, Julio Cortázar e Roberto Arlt sono punte emergenti di un universo di narratori e poeti, pochi dei quali conosciuti in Italia: Roberto Payró, Eduardo Wilde, José Hernández e Benito Lynch a cavallo del secolo, Enrique Banchs, Alfonsina Storni, Horacio Quiroga, Ricardo Güiraldes, Manuel Gálvez, Evaristo Carriego nel primo Novecento; Macedonio Fernández, Silvina Ocampo, Enrique Santos Discepolo, Leónidas Barletta, Elías Castelnuovo, Max Dickman, Adolfo Bioy Casares, Ernesto Sabato e Leopoldo Marechal nella generazione di Borges e Arlt. E poi i contemporanei: Rodolfo Walsh e Manuel Puig, Haroldo Conti e Juan José Saer, Ricardo Piglia, Tomás Eloy Martínez, Daniel Moyano e Osvaldo Soriano, Juan Carlos Martelli, Syria Poletti, Juan Carlos Martini, José Feinmann...

































































Castigliano nostro e di tutti

Molti amici italiani e di altri paesi ci chiedono incuriositi perché noi chiamiamo la nostra lingua "castigliano" invece di "spagnolo". La tradizione europea assimila lingua e stato nazionale (se europeo): Italia=italiano, Francia=francese, Inghilterra=inglese, ecc. Se la lingua in questione è lingua nazionale di un diverso Stato, si considera che questo Stato è privo di una lingua propria, che parla e scrive in lingua altrui, a prestito o di seconda mano. è da poco che si ammette nelle Università europee che un americano è provisto del requisito "lingua madre" necessario per insegnare la propria lingua (inglese, spagnolo, portoghese o francese). Con due guerre mondiali e una incontrastata egemonia economica e culturale gli statounitensi si sono guadagnati un aggettivo: "l'inglese americano".

Ci sono tuttavia almeno due buone ragioni per chiamare "castigliano" la nostra lingua. La prima: lo Stato spagnolo ha quattro lingue nazionali, oltre il castigliano il catalano, il basco e il galiziano, tutte lingue robuste, parlate e scritte, con reperti letterari anche più antichi dei primi testi castigliani. La seconda: i latinoamericani parlavano castigliano prima della formazione dello stato nazionale spagnolo, e continuano a farlo senza nessuna dipendenza economica, politica o culturale rispetto della Spagna.

A differenza dell'Inghilterra e della Francia, la fase coloniale è precedente alla costituzione statale della Spagna; è mancata quindi un'egemonia culturale metropolitana veicolata dalla lingua. Nel settecento il castigliano, lingua della regione centrale iberica, fu adottata come lingua ufficiale dell'impero (nononstante ciò le prime cronache della fondazione di Buenos Aires sono scritte in... tedesco; l'Impero era plurinazionale e plurilinguistico). Nella parte americana dell'Impero il castigliano s'impose come lingua franca, nella quale si capivano tra di loro anche catalani, baschi, galiziani e andalusi, oltre i commercianti genovesi, i soldati germanici, i marinai irlandesi, greci e sardi, gli africani di decine di etnie e lingue, gli indoamericani. Prima che nella peninsola iberica, dove il castigliano era la lingua di una sola delle nazioni costitutive, e non di quella più progredita.

Il tormentato processo della formazione dello stato nazionale spagnolo iniziò precisamente come conseguenza della rovina dell'Impero, dell'occupazione francese, della sconfitta subita in terra americana, e raggiunse una ragionevole completezza solo nell'ultimo terzo del novecento, parallelamente alle nazioni latinoamericane, nelle quali la lingua nazionale era già arrivata alla maturità, con produzioni letterarie e mediali autonome.

Il castigliano americano mantenne più radici settecentesche (nell'area del Rio de la Plata in particolare il "gauchesco" e il "voseo"), e nel contempo accolse innesti di grande ricchezza espressiva: di origine africana, inglese, indoamericana (quechua), a seconda dei paesi, di origine portoghese-brasiliana e immigratoria nel caso dell'Argentina. Per "immigratori" si intendono qui i contributi principalmente da dialetti italiani: ligure, piemontese, lombardo, veneto (pochi immigrati parlavano italiano, meno ancora lo consideravano la loro prima lingua), ma anche da numerose altre correnti migratorie di forte personalità culturale, come gli ebrei schenazi, gli slavi, i catalani, e da lingue come il francese, infiltrato simultaneamente dal basso e dall'alto. Con momenti di sintesi locale, come il "lunfardo", argot di Buenos Aires plastico e cambiante, e momenti di sedimentazione nella lingua corrente degli argentini, che è anche lingua del racconto, della poesia, del cinema, della canzone.

Senza una metropoli egemonica, il castigliano visse e vive una dinamica permanente di differenziazione nazionale e di unificazione trasnazionale. Porta nel primo senso la comunità del vivere, e anche la forza del mercato e dello Stato nazionale; porta nel secondo senso la logica multinazionalizzante del mercato culturale, della vendita di libri, dischi, films, programmi televisi. Questa debolezza è la forza della lingua castigliana, una lingua trasnazionale pluricentrica, dinamica e in permanente cambiamento.

Il castigliano è patrimonio comune di 20 stati indipendenti e di più di 300 milioni di persone; vive se è libero e di tutti, si inaridisce e frammenta se qualcuno pretende impadronirsene.





























































Economia

Dalla ristrutturazione degli anni trenta fino allo smantellamento neoliberale degli anni 90 l'industria è stata la principale attività produttiva; lo è ancora se si considera solo la produzione di beni reali. Era un'industria ad alta integrazione verticale: dalla siderurgia, alla metalmeccanica, al automobile, alle macchine utensili e gli elettrodomestici; dalla petrolchimica di base alle fibre, i plastici, erbicidi e fertilizzanti, il tessile e l'abbigliamento; dall'alluminio e le leghe speciali agli aerei e razzi, e così via. Una così alta complessità era dimensionata sul mercato interno relativamente ridotto di 20 a 30 milioni di abitanti, il che produceva diseconomie di scala, alti costi ed altre storture che risultavano in una scarsa efficienza dell'intero sistema.

Se si eccettua l'industria dell'alimentazione, di elevata efficienza, l'industria argentina non era in grado di concorrere nei mercati mondiali, per le ragioni dette. Gli alimenti e le materie prime di origine rurale rappresentavano quattro quinti delle esportazioni; questo riduceva notevolmente le possibilità di importare, non solo prodotti di consumo (la cui incidenza era minima nelle importazioni del paese) ma anche semilavorati, componenti e tecnologia per l'industria. Il circolo si chiude: la industria, di costi troppo alti e di tecnologia poco aggiornata, era sempre meno capace di esportare.

Questa situazione era stata generata dalla chiusura europea alle esportazioni argentine tra gli anni 20 e 30, ribadita nel dopoguerra dagli atti costitutivi del Mercato Comune Europeo.

Negli anni 70 e 80, nonostante il blocco commerciale europeo e la concorrenza Usa, le esportazioni alimentari argentine sono cresciute, sopratutto per la domanda dei paesi dell'Est. La compressione dei consumi e la caduta dell'attività industriale riducevano nel contempo le importazioni. Il saldo commerciale, finiva risucchiato dagli interessi del debito estero e dalla fuga di capitali.

Data la particolare struttura "autarchica" dell'attività economica argentina la disoccupazione non cresceva allo stesso ritmo della crisi, che si evidenzia piuttosto in una riduzione del livello salariale e di vita che ha pochi precedenti nel mondo (il punto di partenza è più alto di quello dei paesi in via di sviluppo).

La crisi

Nel 1983 è crollata la dittatura militare, dopo la rovinosa guerra delle Falkland, e arrivò al governo, attraverso elezioni libere, il partito radicale di Raúl Alfonsín. Il governo democratico si prefiggeva tre compiti: la riconstruzione delle istituzioni democratiche su basi stabili; lo smantellamento del "potere militare", e la condanna giudiziaria dei suoi crimini; la ristrutturazione del sistema economico, e la fuoriuscita della crisi.

Il primo obbiettivo fu raggiunto in pieno; il secondo si arenò in un braccio di ferro che esaurì le forze, sia dell'apparato burocratico-militare che del movimento democratico; il terzo obbiettivo finì in un drammatico fallimento. La crisi economica affondò i sogni di riforma sociale della sinistra radicale, ed erose l'influenza di questo partito nella società.

L'elemento centrale della crisi era l'iperinflazione. Una svalutazione della moneta a tassi del 6 mila per cento annuo cortocicuita virtualmente l'intera economia. Si evapora il calcolo razionale, la pianificazione degli investimenti, e perfino la nozione stessa di futuro. La precarietà pervade i rapporti sociali, affonda imprese e istituzioni, diffonde una psicologia labile e neurotica.

Il debito estero era pari al prodotto lordo del paese, accresciuto dagli interessi "drogati" con i quali le autorità monetarie dei paesi centrali tenevano in piede la loro prosperità. Non meno gravi erano le ingenti fughe di capitali (sono state stimate in 50 mila miliardi di dollari) e l'impossibilità di trovare una formula stabile e praticabile di inserimento nei mercati internazionali, in una divisione internazionale del lavoro che sembra escludere i paesi industriali periferici.

Il problema dei problemi era comunque la ristrutturazione del disastrato e mal congegnato sistema economico argentino. L'attenzione delle autorità economiche andava sopratutto allo Stato, il cui gigantesco deficit era la causa principale dell'indebitamento esterno, e causa anche del debito interno.

Non c'è dubbio che lo Stato argentino era inefficiente, gonfiato da un'organico sproporzionato, legato a decine di migliaia di sovvenzioni, dative e spese clientelari; neanche si può contestare la necessità di ridurre il settore pubblico dell'economia, quasi da paese dell'Est.

La ristrutturazione non poteva tuttavia ignorare il problema dell'efficienza dell'industria, e la necessità di incorporare il paese nella divisione internazionale del lavoro. Il semplice rimpicciolimento dello Stato non faceva altro che accelerare una corsa verso il basso dell'intera economia. Un paese tagliato fuori dal mondo non poteva resistere; non ha potuto farlo l'Urss, meno ancora poteva farlo un piccolo paese (peraltro aperto di fatto al mondo sul piano finanziario).

Il governo di Alfonsín tentò di raggiungere questi difficili obbiettivi senza smantellare lo Stato Sociale, anzi ricostruendo quanto aveva distrutto il lungo ciclo del potere militare. La spesa pubblica fu dirottata dal settore industriale-militare al settore sociale. Era un tentativo generoso, e in realtà lungimirante, ed era tuttavia destinato al fallimento. Il mercato internazionale al quale l'Argentina doveva aprirsi per uscire dalla crisi, il sistema di stati democratici che potevano sostenere la democratizzazione della società argentina, e il club di banchieri internazionali che controllavano il paese attraverso il debito esterno, erano dominati dal privatismo selvaggio neoliberale.

Non era una semplice cospirazione di poteri forti; l'individualismo rampantista e spregiudicato, il cinismo disincantato, lo scherno nei confronti della solidarietà, dominavano la cultura mondiale, e penetrarono a fiotti nella nuova libertà conquistata, trovando il terreno fertile della "educazione" delle masse nel periodo delle dittature militari.

Al ritmo veloce dell'iperinflazione si saldò un'alleanza tra il blocco industriale-militare, la classe imprenditoriale che aveva lucrato con la dittatura, e lucrava ancora con la esportazione di capitali e la speculazione cambiaria, e la struttura politica del peronismo. Unita intorno alla candidatura di Menem (figlio di immigrati di origine siriano, come Alfonsín lo era di immigrati galiziani) questa opposizione trovò un vasto sostegno di massa, tra i milioni di persone rovinate dalla crisi e dall'iperinflazione.

La cura neoliberale

Saúl Menem rassicurò i suoi potenti amici interni ed esterni procedendo ad un'energica ristrutturazione della spesa pubblica. In una girandola di dollari e corruzione (nella quale ebbe un ruolo rilevante il CAF italiano) passarono a mani private centinaia di imprese pubbliche a prezzo stracciato, a volte pagate con simbolici buoni del debito pubblico, perfino pagate con la vendita di attivi delle stesse aziende acquistate.

Lo Stato Sociale fu smantellato in profondità, con estremi addirittura ridicoli. I debiti verso i pensionati furono pagati con svalutati buoni del debito pubblico, e le pensioni fissate a livelli di suicidio. Il sistema sanitario pubblico fu del tutto svuotato; furono tolti i finanziamenti pubblici alla scuola e alla ricerca; furono "provincializzate" le ferrovie, senza concedere alle provincie i finanziamenti corrispondenti.

Fu fermata bruscamente l'iperinflazione, con prezzi di livello europeo e salari e pensioni congelate ai livelli precedenti. La stabilità monetaria fece di contraltare ad una nuova povertà di massa senza precedenti: rachitismo, tubercolosi, parassitosi e malattie infettive si diffusero in tutto il paese, assieme alla prostituzione, alla delinquenza spicciola, alla vendita dei bambini, allo sfruttamento raccapricciante dei lavoratori. Una dietro l'altra caddero le conquiste sindacali e sociali.

La società argentina soffrì una profonda trasformazione: un terzo prosperò agganciato alla prosperità mondializzante delle privatizzazioni e dei nuovi consumi; un terzo sprofondò dalla classe media alla povertà; un terzo affondò nelle baraccopoli, nella disoccupazione strutturale e nella miseria senza speranze della marginalità.

Da questo punto di partenza emerge una Argentina profondamente mutata. Il Mercosur (il nuovo mercato regionale costituito con il Brasile, l'Uruguay, il Paraguay e successivamente il Cile) è la forza trainante del commercio estero. Si guarda a nord, al Nafta (USA, Messico e Canada) e all'ovest del Giappone e del sudest asiatico. Cambiano i punti di riferimento internazionali dell'economia, tramonta la centralità europea. Nelle città grandi e medie (Buenos Aires, Córdoba e Rosario, ma anche Mendoza, La Plata, Tucumán...) i servizi occupano il posto della industria. La TV via cavo, Internet, anche nei curiosi "caffè telematici", centri commerciali, la medicina privata associata alle assicurazioni, e una miriade di nuovi servizi a bassa intensità di capitale.
































































Sistema Politico

L'Argentina è una repubblica federale presidenziale. Ci sono 23 "Province" (il concetto equivale agli "States" nordamericani più che alle "province" italiane) con Governatori, Parlamenti elettivi, strutture giudiziarie e corpi di polizia propri. Il Potere esecutivo (Presidente e vice-presidente) è eletto direttamente dalla popolazione con il sistema maggioritario a due turni (ogni 4 anni, dal 1994, con diritto ad una rielezione), ed elegge i ministri, tra i quali un "Ministro Coordinador" (Premier).

Il Parlamento è costituito da una Camera dei Deputati (340 membri), scelti dalla popolazione nazionale con premio maggioritario, e da un Senato costituito da rappresentanti scelti dalla popolazione di ogni Provincia (62 membri). C'è una giustizia e corpi di polizia federali.

La parte centrale della città di Buenos Aires costituisce il distretto "Capital Federal", che nel 1996 ha avuto il proprio statuto autonomo, anche se con poteri molto più bassi delle Provincie.

Il sistema politico determina una storica polarizzazione del sistema dei partiti, prima tra liberal-conservatori e radicali, e poi tra radicali e peronisti. Questa "semplificazione" nazionale poggia in realtà su un complesso mosaico di partiti provinciali, in genere conservatori. Ci sono inoltre dei "terzi partiti" (il Partito Socialista prima degli anni 40, il FREPASO, Fronte per un Paese Solidario, nell'ultimo decennio) e dei "partitini ideologici" che puntano a condizionare le grandi coalizioni (democristiani, ultraliberali, ecc.).
































































Crediti e Diritti

La prima versione di questa Scheda sull'Argentina in italiano è stata pubblicata nella città di Bologna nel 1992 dall'Associazione dei Residenti Argentini nell'Emilia Romagna; era l'autore Miguel Angel García. È stata utilizzata come strumento di informazione, con riedizioni fotocopiate quasi annuali, e frequenti aggiornamenti. La riproponiamo in questa versione Web perché ancora oggi non c'è in italiano uno strumento informativo agile sull'Argentina.

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