Storia

L'Argentina è, dal punto di vista demografico, uno dei paesi più "giovani" del mondo. Nel Settecento, quando il Messico, il Peru, il Brasile e il Cile erano ormai società complesse, con milioni di abitanti e centri urbani evoluti, le pianure dell'Atlantico sud erano quasi del tutto spopolate. Negli anni a cavallo tra i secoli XVIII e XIX ci fu un veloce e disordinato processo di occupazione del territorio, sempre marginale nell'impero spagnolo (i soggetti erano catalani, baschi, irlandesi, genovesi, napolitani, cittadini delle nazioni periferiche dell'Impero; gli spagnoli metropolitani emigravano dove c'erano oro, argento, indiani e città).



Gaucho
argentino
(Campos,
1951)
L'anarchica libertà della "frontiera", una società selvaggia, nella quale gli indiani erano guerrieri nomadi, e non contadini asserviti; dove i bianchi erano plebei, non di rado avventurieri e disertori; e dove gli schiavi africani, senza una economia di piantagione, costituivano una classe bassa di artigiani e servitori, fece di questa terra una polveriera rivoluzionaria, centro della guerra anticoloniale nel subcontinente. Dopo l'indipendenza risultò purtroppo una società ingovernabile, sconvolta dalla guerra civile fino alla seconda metà dell'ottocento.

L'Europa si trovava allora in un prolungato periodo di sviluppo e arricchimento; servivano materie prime, in particolare alimenti. I vincitori delle guerre civili, una elite di intellettuali liberali, grandi proprietari terrieri e militari, svilupparono allora il "Progetto Nazionale" che diede origine all'Argentina moderna. In pochi anni crearono un efficiente esercito professionale, occuparono grandi territori disabitati, spostarono le frontiere dei paesi vicini (il Paraguay risultò quasi distrutto) e sterminarono gli indiani nomadi delle Pampas.

Con investimenti inglesi crearono una moderna struttura di porti, e una delle maggiori reti ferroviarie (35 mila chilometri) e telegrafiche del mondo. Aprirono il paese all'emigrazione europea: all'inizio dell' ultimo terzio del secolo XIX c'erano nel territorio argentino 1,7 milioni di abitanti (molti di loro immigrati precedenti); tra questa data e la prima guerra mondiale rimassero come saldo immigratorio 3 milioni di europei: una proporzione che non ha parangone, neanche negli altri tradizionali paesi di immigrazione.



Piazza di
Buenos Aires
I cereali, la carne e la lana argentine erano prodotte con tecniche moderne e poca mano d'opera; i costi erano da tre a cinque volte inferiori a quelli europei. Il surplus, appropriato da una oligarchia finanziaria di grandi proprietari, banchieri e industriali, fu utilizzato per ampliare l'infrastruttura e per creare una delle più raffinate città del mondo, Buenos Aires, che nei primi anni del secolo ebbe una rete metropolitana sotterranea, collegata ad un sistema di ferrovie suburbane, strade e palazzi dove predomina l'art noveau, teatri, parchi e quartieri di grande bellezza.

Era una società segnata dall'ingiustizia, dove la stragrande maggioranza della popolazione era esclusa del voto, e nella quale gli immigrati erano utilizzati come mano d'opera a basso prezzo. Tra gli anni 10 e 20 i lavoratori furono protagonisti di aspre lotte sociali, represse in modo brutale. Il regime fu comunque travolto; nel 1912 si svolsero le prime elezioni democratiche, vinte dal partito dell'opposizione democratica, l'Unión Cívica Radical. I mezzadri ottennero l'accesso alla terra, e costituirono il sistema cooperativo. I lavoratori industriali e urbani si organizzarono sindacalmente, e diedero i primi passi verso il riconoscimento dei loro diritti salariali e sociali.

Negli anni 20, dice l'economista Colin Clark, l'Argentina si trovava tra i cinque paesi più ricchi del mondo, e il suo livello di vita medio, molto superiore a quello dei paesi europei, era vicino a quelli degli Usa e del Canada. Il crollo del modello agroesportatore era tuttavia già cominciato. I paesi europei si chiudevano, uno dopo l'altro, dietro barriere protezionistiche; la concorrenza con gli Stati Uniti, il Canada e l'Australia abbatteva i prezzi internazionali, e spariva quindi il surplus sul quale poggiava la prosperità argentina.



Eva Perón
Negli anni 30, con la popolazione ridotta alla disoccupazione e la fame, i militari presero il potere; dopo un breve sperimento corporativo fascista, stabilirono un regime di destra, destinato a ricacciare indietro i lavoratori e le classi medie democratiche, e a riorientare gli investimenti verso l'industria e il mercato interno, per reagire alla caduta delle esportazioni. Il ciclo ebbe fine negli anni 40, con la formazione del "giustizialismo" del generale Juan Domingo Perón. Questo movimento si fece erede dell'ideologia nazionalista, industrialista e autoritaria dei militari, e simultaneamente delle aspirazioni democratiche e di giustizia sociale delle masse. Sembrava la quadratura del circolo, ma Perón, forte delle riserve accumulate dalle esportazioni di tempo di guerra, ci riuscì quasi per un decennio.

Negli anni 50 tornò a riaprirsi la crisi economica. L'Argentina non era riuscita ad inserirsi nel mondo della posguerra; l'industria autarchica era una soluzione di emergenza, che non poteva resistere al nuovo mercato mondiale ripristinato dopo Bretton Wood. La economia, nel ventennio successivo, fu presa in una spirale inflazionaria permanente, mentre la produttività e il reddito del paese si allontanavano via via da quelle dei paesi avanzati. Il PLI per abitante scese in termini relativi dal terzo, al undicesimo, al quarantesimo posto nel mondo, raggiunto e sorpassato da altre nazioni latino-americane e asiatiche. Questa sconfitta economica corrispose ad una forte instabilità politica, nella quale le Forze Armate prendevano una dietro l'altra le leve del potere.

I militari presero formalmente il potere nel 1966; travolti dalle lotte sociali e democratiche (tra le quali un indimenticabile 68/69 studentesco e operaio) cedettero il potere, nel 1973, al governo democratico peronista. Questo governo deluse le speranze, forse eccessive, dei suoi votanti, e sprofondò in una pesante crisi economica, politica e morale, insanguinata dai massacri delle squadracce di destra (le tre A) organizzate dal governo, e dall'avventurismo folle del terrorismo di sinistra.



Junta Militar
Nel 1976 il secondo governo peronista fu spodestato dai militari, che stabilirono la dittatura che doveva "risolvere" finalmente i problemi dell'Argentina. La fredda criminalità della "soluzione" militare sconvolge ancora la coscienza del mondo. Furono sequestrati, torturati e assassinati decine di migliaia di giovani, di intellettuali, di attivisti sindacali, politici e sociali, nel tentativo di eliminare la conflittualità sociale.

Nel terreno economico fu tentato il primo sperimento neoliberale (Martínez de Hoz), centrato nel potenziamento dell'agricoltura, lo smantellamento della industria sussidiata e dello Stato sociale. Un tentativo poco coerente, se si considera che i gestori e i beneficiari del sistema autarchico erano principalmente i militari e i boiardi di regime a loro collegati, e che questi controllavano le leve del potere. Fu il colpo finale per la traballante economia argentina. Fu contenuta l'inflazione e ripristinato il mercato di capitali per un paio di anni (i cosiddetti anni dei "soldi dolci"), al prezzo di un indebitamento mostruoso (equivale al reddito totale del paese), uno slittamento dell'economia dalla produzione verso la speculazione finanziaria, la bancarotta dello Stato e la ripresa finale dell'iperinflazione.


Raúl Alfonsín
La guerra delle Falklands/Malvinas, disastrosa realizzazione delle tematiche nazionali care ai militari, chiuse questo ciclo. Nel 1983 i radicali portarono alla presidenza Raúl Alfonsín. Il nuovo governo ristabilì pienamente le libertà democratiche e le garanzie costituzionali; tentò (riuscendovi solo in parte) di giudicare e condannare i colpevoli dei massacri e delle torture. E fallì nel terreno economico, senza riuscire ad arginare la rovinosa caduta del paese. Nel 1989, in una situazione di crisi aperta, punteggiata da assalti ai supermercati e da ribellioni militari, vinse le elezioni l'opposizione peronista, che portò al governo un oscuro politico di provincia, Carlos Saúl Menem.

Si può condannare la corruzione, il cinismo mediale e la insensibilità sociale del governo menemista, e si deve tuttavia accettare che riuscì dove la violenza dittatoriale aveva fallito, e che il sostanziale successo del suo piano neoliberale (gestito dal ministro Cavallo) ha chiuso una epoca della storia argentina e aperto una nuova.



Carlos Menem
Fu smantellato lo Stato sociale, ma furono anche liquidate le aziende pubbliche che controllavano l'economia, vero pilastro del potere burocratico-militare. La stabilità monetaria fermò la finanziarizzazione dell'economia (il peso argentino è da alcuni anni pari al dollaro, e l'inflazione molto bassa).

Nel terreno internazionale l'Argentina rinunciò al suo "amore non corrisposto" verso l'Europa, e puntò decisamente all'area USA (nuovo centro finanziario, e anche intellettuale e culturale per gli argentini) e verso il Brasile, diventato, nel quadro del Mercosud, il principale partner commerciale.
































































Società

L'Argentina del primo Ottocento era un "corridoio" di 2.000 chilometri, dalle miniere dell'argento del Alto Peru (oggi Bolivia) al porto di Buenos Aires. L'estremo nordovest del "corridoio" era popolato da 300 mila indiani quechua (checciua) asserviti ad un'aristocrazia spagnola, che producevano alimenti per le miniere. L'estremo sudest attraversava le spopolate pampas; c'erano in tutto 150 mila persone, di origine europeo e africano. Due terzi di questi vivevano in città; il resto erano i selvaggi abitanti della "frontiera", i gauchos, una internazionale di soldati e marinai disertori, schiavi fuggiaschi, meticci di europeo, indoamericano e africano, sequiti armati dei notabili delle guerre civili.

Gli indiani nomadi percorrevano le vuote pianure, dalle loro basi nel sud del Cile. Erano uno sviluppo sociale "moderno", un prodotto anche loro della colonizzazione europea: ottimi cavallieri, avevano mutuato la loro organizzazione tribale di origine in una flessibile struttura nomade-militare, comparabile a quella dei tartari. Nella seconda metà del secolo XIX gli immigrati piemontesi, svizzeri e lombardi dovettero difendere armi in mano i loro villaggi, contro le incursioni degli indiani, fino al massacro con il quale il nascente esercito nazionale "risolse" il problema.

A nordest del "corridoio" c'erano il Chaco (Ciacco) e le ex-Misioni gesuitiche, abitate da contadini indoamericani di etnia guaraní. A sudovest c'erano le vallate irrigue del Cuyo (popolate da un'antica corrente migratoria spagnola dal Cile), le pianure desertiche della Pampa esterna e la steppa patagonica.

Verso il 1870 si erano sviluppati due centri demografici indipendenti: quello del Nordovest, di profilo sociale "latino-americano", e quello della frontiera delle praterie, profondamente modificato dall'immigrazione di irlandesi, baschi, gallesi, inglesi, piemontesi, lombardi, svizzeri e genovesi (vedi le bellissime pagine dello scritore angloargentino William Hudson, "Far Away and Long Ago"). C'erano 1,7 milioni di abitanti, dei quali un milione nel primo centro (in maggioranza contadini), e il resto nel secondo. Nelle "Pampas" c'erano quattro centri urbani: Buenos Aires (187 mila abitanti), Rosario (23 mila), Córdoba (29 mila) e Santa Fe (11 mila), con una urbanizzazione del 60%. Gli stranieri erano 210 mila.

Tra quella data e il 1914 sono rimasti nell'Argentina (saldo tra entrate e uscite) 3 milioni di immigrati europei, 60% dei quali italiani, il resto spagnoli, francesi, tedeschi, inglesi, svizzeri e slavi. Nel 1914 i cittadini stranieri erano un 30% della popolazione totale. La popolazione balzò a 7,9 milioni, dei quali 5 milioni nelle "Pampas". Il nordovest rimase come un'area di sottosviluppo interno, mentre il centro demografico passava alla regione sudest del vecchio "corridoio".

Era quest'ultima una società prevalentemente urbana; la sola Buenos Aires aveva 2 milioni di abitanti, mentre Rosario arrivava al mezzo milione. L'agricoltura era di tipo moderno estensivo, di alta produttività e ridotta domanda di mano d'opera. C'erano i "colonos" (immigrati che acquistavano i poderi a credito), i mezzadri (immigrati più poveri), gli "estancieros" (titolari di grandi aziende agropecuarie) e i braccianti stagionali ("peones"), molti dei quali provenienti dall'Italia (le "rondinelle", che avevano facilità dalle compagnie di navigazione per fare i raccolti e tornare ogni anno).

Nelle città prevaleva un proletariato multinazionale e ribelle, organizzato da anarchici e socialisti, una classe media nella quale ascendevano, in acuto conflitto con le famiglie tradizionali, i nuovi immigrati, e una ridotta aristocrazia borghese dominante (l'oligarquía).Negli anni 10 e 20 i mezzadri riuscirono ad aprirsi la strada della proprietà della terra, e a creare una potente struttura cooperativa. Il proletariato urbano iniziò la conquista dei diritti sociali, e la classe media ottenne la democrazia politica e l'accesso alle istituzioni. La industrializzazione degli anni 30 e 40 richiese mano d'opera, mentre si riduceva il flusso immigratorio europeo (nonostante la forte corrente di slavi, ebrei schenazi, tedeschi, siriani, libanesi e giapponesi). La mano d'opera fu fornita dallo "svuotamento" finale del nordovest contadino (la cui partecipazione nella popolazione nazionale si ridusse al 12% nel 1947) e dalla nuova immigrazione latinoamericana (Paraguay, Bolivia, Cile). Con Perón i salariati ottennero lo Stato Sociale per il quale lottavano da quaranta anni, e si completò l'ascesa della classe media immigrata, e la sua fusione con la vecchia classe media.

Nel 1970 Buenos Aires raggiunse gli 8,3 milioni di abitanti; da allora è una città sostanzialmente stabile, sui nove milioni. Rosario e Córdoba si stabilizzarono sul milione; seguono La Plata e Mendoza (mezzo milione). Le altre città oscillano tra i 100 e 400 mila abitanti. La popolazione definita come "rurale" (centri di meno di 2 mila abitanti) si aggira sul 12%. L'Argentina, nonostante le sue esportazioni agricole, è un paese decisamente urbano. La meccanizzazione ha ridotto fortemente il bracciantato (assicurato in genere da frontalieri boliviani, paraguayani e cileni). L'agricoltura occupa l'11% della popolazione attiva, contro un 35% dell'industria e un 54% dei servizi, quattro quinti dei quali di tipo impiegatizio.


Fino alla svolta neoliberale degli anni 90 il maggiore datore di lavoro era lo Stato; seguivano le grandi aziende private dell'industria (siderurgia, auto, petrolchimica) e i servizi. C'era un'ampia classe media di piccoli imprenditori, nell'industria, nel commercio e nelle libere professioni. Era un luogo comune definire l'Argentina "un paese di classe media" (vedi Quino e la sua saga di "Mafalda"). L'autarchia economica iniziata negli anni 30 e continuata per il mancato inserimento nel mondo della posguerra aveva dato all'Argentina una patina di "socialismo reale". Non solo per l'invadente presenza dello Stato, e per il ricorrente autoritarismo militare, ma anche per la crescente distanza della qualità dei consumi rispetto dei paesi avanzati.


C'erano pochi e vecchi automobili (più qualche caro e malfunzionante trabicolo della industria autarchica di Stato, come il "Rastrojero"), ma c'era invece una enorme, insostenibile rete ferroviaria; c'erano pochi elettrodomestici, ma c'era invece un sistema scolastico diffuso e accessibile (95,5% della popolazione era alfabeta, il coefficiente di lettura di libri e giornali superava quello di quasi tutti i paesi europei, le università sfornavano leve di scienziati e tecnici che avrebbero qualche tempo dopo alimentato l'esilio e l'emigrazione). Come nell'Europa dell'immediata posguerra, non c'erano i supermercati e i centri commerciali delle città nordamericane; ma c'era invece un imponente sistema sociale e sanitario, avvicinato nell'America Latina solo da quello della Cuba castrista. I salari erano bassi, però la disoccupazione era molto ridotta, e i prezzi degli alimenti stracciati.


Le fisure che incrinavano questo paradiso della mediocrità erano visibili: impennate di iperinflazione che distruggevano risparmi e imprese; deficit straripante e indebitamento; incapacità di assimilare i nuovi immigrati, che rimanevano nelle periferie delle città, in precarie baraccopoli; impossibilità di esportare pressoché nulla nel mercato internazionale; deterioro crescente delle infrastrutture per la non disponibilità di risorse per importare.

Le ricette dell'economia neliberale stanno distruggendo quel mondo con la brutalità delle mazze ferrate. La vecchia era una società senza uscita, impantanata nella propria inefficienza, condannata dalla storia; era tuttavia pensabile una riforma meno traumatica, in grado di differenziare tra il bambino e l'acqua sporca. Lo era?

La nuova società argentina è oggi più "americana" e capitalista. Smantellati lo Stato sociale, il sistema scolastico, la rete ferroviaria, l'industria pubblica deficitaria, la piccola industria autarchica, sostituito il piccolo commercio per le schiere di rutilanti centri commerciali, la sanità sovvenzionata e le pensioni per le assicurazioni, i quartieri di periferia per i "countries" dove vivono i nuovi ricchi, protetti dai "vigilantes", le vecchie macchine per le nuove costruite in Argentina e in Brasile, acquistate a rate da chi ancora può, prende forma una società più egoista e aggressiva, dove convivono una utenza di TV via cavo che se la sognano in Italia e in Spagna, con bambini della strada e bande di disperati, disoccupati e vecchi indigenti.

Dipingere un'Argentina in nero sarebbe ricaddere in un vecchio errore della sinistra europea. L'attuale è un'Argentina di molti colori, non tutti sgradevoli. è da questa società comunque che bisogna partire, perché è il paese che c'è. La classe media, sostanzialmente, ha retto l'impatto, riciclandosi nei servizi. Interi settori della classe operaia, invece, sono state spinti nella marginalità, portandosi dietro interi quartieri e piccole città. Il dualismo tra la società dei ricchi e la società dei poveri c'era già nella vecchia Argentina, anche se mascherato e addolcito dall'intervento dello Stato. C'è una strada diversa per ricucire l'unità della società che non mortifichi la libertà e il dinamismo? Forse non è questa la domanda giusta; quel che è vero tuttavia è che bisogna avere le domande prima delle risposte.