Scrissi questo racconto nel 1993, dedicandolo alla mia amica Silvia Marini Vadimova, che anni prima, in un momento difficile della mia vita, mi era stata vicina, e che si era appena diplomata al conservatorio de L'Aquila.
Il luogo in cui si svolge il racconto è reale, e il tema trattato è uno di quelli che da sempre mi affascina, a metà tra l'horror e la fantascienza.



SEI STATO UN BAMBINO CATTIVO

Chi di voi ricorda ancora un piccolo incidente - chiamiamolo così -, di cui dovreste aver letto sui giornali lo scorso mese di Agosto? Pochi, almeno di questo sono sicuro.
Dicono che d'estate si leggono meno giornali e si guarda meno televisione; ma vero o no che sia questo aspetto della nostra vita sociale, bisogna anche dire che comunque pochi giornali, anzi, ad essere sinceri, solo i giornali locali pubblicarono qualcosa su questo 'incidente'. E quelli che lo fecero si limitarono a poche ed insignificanti righe mescolate ai più svariati fatti di cronaca locale. No, come posso sperare che qualcuno, impegnato a godersi le vacanze in una continua ossessione di divertimento, spiagge, disco-music e conquiste facili possa aver notato qualcuno di quei trafiletti?
Eppure mi domando spesso se non sarebbe stato meglio che nessun giornale avesse pubblicato niente del tutto. So che qualcuno verrà e mi farà delle domande, prima o poi. So che dovrò trovare delle risposte.
Risposte che non so e non voglio trovare.
Ma non posso escludere del tutto che qualcuno, in fondo, ricordi ancora confusamente qualcuno di questi trafiletti; trafiletti che parlavano del solito turista che si era perso in montagna, ma dopo essere stato ritrovato il mattino dopo aveva preteso l'elicottero per tornare a valle, nonostante fosse ancora in buone condizioni.
Sì, forse c'è qualcuno che ricorda vagamente di aver letto una storia simile da qualche parte. E forse a suo tempo avrà anche pensato qualcosa del tipo 'Quante storie per essersi perso. Una notte all'aperto non ha mai fatto male a nessuno'.
Eppure non sono uno che fa storie. Ho passato un sacco di notti all'aperto, in vita mia, ho viaggiato in condizioni difficili, e mi sono anche perso in luoghi dove perdersi era la cosa meno indicata da farsi.
Non nego affatto che quando fui ritrovato, il mattino dopo, ero perfettamente in grado di scendere con le mie forze. Anzi, non mi ero neppure perso, e sarei potuto scendere molto prima. Non ci sarebbe stato nessun allarme, in paese, e molte persone si sarebbero risparmiate un sacco di preoccupazioni.
Ma nulla al mondo mi avrebbe fatto scendere, né allora né dopo.
Non mi va di fare del sensazionalismo, né di creare misteri dove non ce ne sono, come se non bastassero quelli che ... quelli che ...
Bisogna che mi spieghi, che descriva i luoghi innanzi tutto. I luoghi sono importanti, e non si può capire se non se ne ha una visione chiara.
Era la fine di Agosto, ed io, come molte volte in passato, ero in vacanza a Sappada, ultimo paese del Cadore prima dello spartiacque che divide il Veneto dal Friuli. Questo paese si trova sul lato Nord di una valle lunga ed abbastanza stretta, valle disposta in direzione Est-Ovest, percorsa dal Piave per tutta la sua lunghezza. Il fiume, le cui sorgenti si trovano a breve distanza dal paese, è poco più di un torrente in questo suo tratto iniziale, tant'è che guadarlo non presenta nessuna difficoltà. Comunque alcuni ponticelli di legno collegano il lato Nord della valle - con il paese, ed ampi pascoli tutto intorno - con il lato Sud, quello più in ombra, dove i boschi sono praticamente intatti.
I boschi ...
Il paese fu fondato nel duecento (o poco prima, non riesco mai a ricordare) da un gruppo di fuoriusciti proveniente da un paese austriaco non molto lontano. Tuttora si parla il tedesco, a Sappada, anche se l'isolamento in cui il paese è sempre vissuto ha modificato la lingua rendendola ancora più incomprensibile per noi comuni mortali.
Ma questo non ha alcuna importanza. Del resto ci penserà il turismo a fare scomparire questa strana isola linguistica. Ai turisti non serve un dialetto che nessuno capisce, e presto il tedesco degli abitanti farà la fine delle loro mucche e delle loro stalle, tutte trasformate in piccoli residence.

Che se ne faranno di tutti quei pascoli sul lato Nord della valle, adesso?
Il paese è costruito a circa 500 metri dal fiume, abbastanza lontano per ripararsi dalle inondazioni, abbastanza vicino per non dover costruire troppo in pendenza. Sopra, per altre centinaia di metri, e sotto, fino al fiume, si stendono quelli che erano i pascoli.
Ma come avevo accennato prima, il lato Sud della valle è ancora intatto: tra le rive del fiume e i ghiaioni che scendono dalle rocce un unico bosco si stende ad abbracciare le montagne, spezzato di tanto in tanto da qualche torrente che si getta nel Piave.
Questo è il lato che sempre mi ha attirato maggiormente, con le sue montagne dalle forme bizzarre, e i suoi nevai in certe conche irraggiungibili.
E anche quel giorno uscii, poco dopo pranzo, per un'escursione sul lato Sud, come tante altre volte avevo fatto quando il tempo era buono e l'aria sufficientemente limpida per distinguere quei particolari che sfuggono immancabilmente alla massa dei turisti.
Non era un'escursione lunga, né particolarmente impegnativa. Contavo di fare il percorso in circa tre ore, e del resto avevo fatto altre volte lo stesso giro. Ma era un giro che aveva il pregio di portarmi in luoghi che a me piacevano particolarmente.
Fu così che dopo una salita lunga e faticosa girai intorno a una bassa montagna del lato Sud, e raggiunsi l'Arco, curiosa formazione rocciosa dall'aspetto facilmente intuibile che si protende sul vuoto per qualche metro.
Praticamente invisibile da ogni punto della valle, la sua forma bizzarra e la sua solitudine, visto che il sentiero che vi giunge è tra i più ripidi e i meno frequentati, avevano su di me un fascino particolare.
E una volta ancora mi ci ritrovai, mai sazio di godermi il vento sulle rocce e l'aria limpida.
Ma divagare non serve. Bene, da lì scesi fino a un passo che si apriva sopra Sappada, completando il giro di quella che ho chiamato 'bassa montagna'. Dal passo, un sentiero scende verso il Piave percorrendo il lato destro di una valletta. Il passo è circa 400 metri più in alto del fiume, ed io ero in grado di percorrerlo, in discesa, in circa un'ora.
Ma perché dico 'ero'? Non sarei capace tuttora di percorrerlo nello stesso tempo? O forse dico 'ero' perché so che non lo percorrerò più?
E' bene che spieghi come è fatto questo sentiero. Lasciato il passo si incontra un cancello di legno, che impediva alle mucche che pascolavano nella zona di allontanarsi dalle malghe.
Dopo il cancello vi è un lungo costone di roccia, peraltro largo e recintato, a scanso di improvvisi scivoloni nei burroni sottostanti. Quindi il sentiero scende dentro un boschetto, in un punto in cui i fianchi della valletta sono meno ripidi, e poi segue un secondo costone, anche questo ampio e recintato.
Infine il sentiero scompare nel bosco che avvolge tutto il lato Sud della vallata, e riemerge a pochi passi dal Piave. E poi ... poi si passa uno di quei ponticelli di legno e si torna in paese.
Tutto questo sentiero è ben visibile dal paese; o meglio, i due costoni si vedono bene. I tratti dentro il bosco si possono intuire.
E' bene che non vi sia il minimo dubbio su questo particolare. Fin dall'epoca delle mie prime vacanze a Sappada ero stato affascinato dalla vista di questo sentiero, per me allora proibito, in quanto considerato un po' troppo rischioso per un ragazzino inesperto.
Tra l'altro, non mi sembra che ci siano altri sentieri visibili dal paese.
Quel sentiero è l'unico, e si vede perfettamente. PERFETTAMENTE.
Insomma, era di pomeriggio e avevo cominciato a scendere verso il paese. Nonostante il tempo si fosse mantenuto molto buono, non avevo incontrato nessuno. Ma a fine Agosto era del tutto normale.
Ero di ottimo umore. Chissà che per il giorno dopo non fosse possibile effettuare un'escursione più impegnativa. Ero in forma, e sarei potuto andare molto lontano anche se mi fossi limitato a quelle sei ore circa che intercorrevano tra il pranzo e la cena. Anzi, mi stavo quasi pentendo di non avere allungato il mio giro quello stesso pomeriggio. In fondo in montagna un giorno non è mai uguale a quello prima, e forse potevo sfruttare meglio quello in corso.

Così passai il cancello di legno, percorsi il primo costone, notai ancora una volta la lapide in memoria di un militare caduto nel burrone molti anni prima, scesi attraverso il boschetto, e finalmente uscii sul secondo costone.
E fu allora, non appena vi ebbi messo piede, che ebbi la sensazione di 'qualcosa' che non andava.
Era una sensazione strana, indefinita. Qualcosa che non avevo mai provato prima, qualcosa di remoto, di fastidioso. Qualcosa che giaceva da qualche parte nel mio subconscio.
Ma soprattutto era una sensazione che lungi dal passare, diventava più forte ad ogni passo. Avevo l'impressione che stesse lottando per venire alla luce, e un po' alla volta, quasi inconsciamente, i miei passi rallentarono.
Avanti, sempre più avanti. E sempre più piano, mentre la sensazione di qualcosa che non andava, anzi di qualcosa che non funzionava diventava sempre più forte, quasi inquietante.
Non riuscivo a capire, a trovare una risposta. La sensazione cominciava ad angosciarmi. La mia mente ne era ormai completamente presa, incapace di distrarsi, impossibilitata a sfuggirvi.
Ero ormai quasi fermo, e a breve distanza dal punto in cui il sentiero entrava nel bosco, quando capii.
Guardavo davanti a me, guardavo il fondovalle. Il Piave scorreva, una linea silenziosa e quasi diritta.
E oltre il Piave, sul lato Nord della valle, il bosco si stendeva ininterrotto a perdita d'occhio.
Come sul lato Sud, il lato sul quale mi trovavo.
Sul lato Nord il paese, verso il quale stavo tornando, non c'era più.
Per un momento, un lungo momento - ma non chiedetemi quanto lungo -, rimasi a guardare davanti a me, verso la valle, verso i boschi.
E poi guardai il sentiero su cui mi trovavo. E il parapetto.
E poi di nuovo la valle, il fiume, i boschi. Nessuna traccia di case, di strade, di pascoli. Solo boschi.
Di nuovo il sentiero sotto i miei piedi. Di nuovo la valle.
E così via, in una sorta di balletto impazzito.
Non so quanto tempo fosse passato. Non molto, credo. Comunque arrivò il momento in cui riuscii a formare di nuovo dei pensieri nella mia testa, delle connessioni logiche. Cercai di pensare.
Bene, non era possibile. Ricorderete che i costoni di roccia si vedono perfettamente dal paese, e quindi è vero anche il contrario.
D'altra parte avevo percorso quel tratto di sentiero moltissime volte, e sapevo - ne ero più che certo! - che il paese si vedeva benissimo; anzi, non c'erano forse viste migliori e più complete.
Eppure in quel momento non c'era nessun paese.
Non era possibile. Che mi fossi perso?
Dovevo essermi perso. Chissà dove mi trovavo.
Ma sapevo già di formulare un'ipotesi assurda. Sapevo bene dove mi trovavo, in ogni momento della mia escursione lo avevo sempre saputo. Conoscevo quei posti e quelle montagne meglio della città in cui abitavo. E poi riconoscevo benissimo il panorama davanti a me, il solito panorama che avevo visto tante volte, preciso in tutti i suoi particolari, tranne che in quello fondamentale.
Dovevo essermi perso. Non potevo essermi perso.
Vidi a poca distanza da me un segno bianco e rosso, su una pietra. E un numero, '316'. Il numero del sentiero. Ovvio. Sapevo di essere su quel sentiero. Non poteva essere diversamente.
Ma il paese non c'era. Tornai a guardare il sentiero, e poi la valle. E poi il sentiero. E tutto questo nell'assurda convinzione che ad un certo punto il paese sarebbe riapparso.
No, così non andava. Dovevo sforzarmi di ragionare. Ero sul sentiero giusto, indubbiamente; ma quello stesso sentiero era molto lungo, e faceva parecchi altri giri per le montagne prima di arrivare nel punto in cui mi trovavo – o credevo di trovarmi -. Potevo averlo preso nella direzione sbagliata? Forse al passo ero andato a destra invece che a sinistra. Forse stavo scendendo nella valle opposta.
Guardai ancora nella valle. Sapevo che era quella giusta. Conoscevo la valle dall'altra parte. Sapevo di non avere svoltato a destra, al passo.
Maledizione, perché avrei dovuto svoltare a destra?

Niente da fare, non mi ero perso e quella era esattamente la valle dove il paese era sempre stato, con la chiesa, la piazza, il municipio, gli skilift, la seggiovia. Non mi ero perso. Lo sapevo.
Ma il paese non c'era.
Forse stavo sognando. Avevo sognato tutto, l'escursione, l'Arco, il passo, il sentiero. Anche se tutto sembrava assurdamente reale, ricordavo certi sogni che sembravano così veri ... prima di svegliarmi e di rendermi conto di come stavano le cose. Ma se stavo sognando, come avrei fatto a svegliarmi? Con i pizzicotti? Ci provai, e naturalmente non successe nulla.
Ma era davvero questo il sistema per svegliarsi?
Era sempre più chiaro che non mi ero perso e probabilmente non stavo sognando. Cercai di pensare, di ragionare ancora. Questa cosa mi stava succedendo mentre ero sul secondo costone. E sul primo? Avevo visto il paese, mentre ero sul primo? Mi pareva di sì, ma non potevo esserne sicuro. Non ricordavo niente di strano, nessuna sensazione particolare. Non ricordavo di aver visto il paese, ma certamente mi sarei ricordato di non averlo visto. O no?
Cominciai a faticare per tenere insieme i miei pensieri. Mi accorsi che iniziavo a sudare. La mia lucidità se ne stava andando. Se non avessi fatto qualcosa avrei perso il controllo.
E allora scesi. Giù, nel bosco, verso il paese che non c'era. Giù, lungo il sentiero che c'era e da qualche parte mi avrebbe portato. Forse proprio al paese, che mi sarebbe ricomparso davanti mentre i suoi abitanti avrebbero riso alle mie spalle.
Perché, poi? Stentavo a controllare le assurdità che mi venivano in mente.
Ormai non volevo che scendere, scendere prima possibile, uscire da quella situazione folle, priva di ogni logica.
Giù, lungo il sentiero, nel bosco di abeti. Alberi che avevo sempre amato, e ora mi impedivano di vedere il fondovalle, e quello che mi aspettava.
Sempre più giù, nonostante le enormi pozzanghere che si formavano spesso sul sentiero, dopo qualche giorno di brutto tempo, e che del resto non scomparivano mai del tutto. Pozzanghere così grandi che a volte ero costretto a lasciare il sentiero e a girarvi intorno. Come avevo sempre fatto, no?
Ma in un caso fui costretto a fare un giro molto più largo. Trovai dei cespugli particolarmente fitti che mi allontanarono ancora più dal sentiero.
E superata anche questa difficoltà, non riuscii a ritrovarlo.
Pure non dovevo essermene allontanato troppo: dovevo tornare indietro e cercarlo? Non avevo mai pensato di ritornare indietro ... mi venne in mente allora, e chissà, se l'avessi fatto ...
Ma avevo troppa fretta di scendere, di arrivare fuori di quel bosco, di raggiungere il fiume, dove sicuramente avrei ritrovato il ponte, e poi i pascoli, e poi il paese ...
Continuai a precipitarmi giù per il sottobosco, scendendo più in fretta che potevo, mentre l'angoscia mi cresceva dentro ad ogni passo. Avevo perso il sentiero. Poco male. Sarei sceso lo stesso, il terreno non era ripido. Sarei arrivato, sarei sfuggito a quel bosco sempre più tetro e più opprimente.
Mi mancava solo di vedere i rami protendersi verso di me e di sentire voci sibilanti chiamare il mio nome. E non volevo pensare al sentiero che prima c'era e poi non c'era più, e al paese che c'era sempre stato e poi non c'era più anche lui, e poi ...
Alla fine uscii dal bosco. Proprio di fronte al fiume, al Piave, come era sempre stato. Proprio dove il sentiero sarebbe dovuto uscire dal bosco, in quel punto dove un piccolo torrente proveniente dalla valletta alle mie spalle si gettava nel fiume.
E davanti a me non c'era nessun ponte, nessun paese, nessun prato. Un bosco ininterrotto a perdita d'occhio. Nessun sentiero, nessuna strada.
Io, un fiume, un bosco.
Mi girai lentamente, senza più capire quello che facevo. Guardai il bosco da cui ero appena uscito. Guardai sopra, verso la montagna. Pareti di roccia.
E nessun costone. Nessun sentiero. Niente. Dal bosco al passo, niente.
Ma ne ero sceso ... ne ero appena sceso ... Ma il sentiero? Il sentiero che prima c'era e poi non c'era più? Nel bosco ... Poi, rapido come il lampo, un pensiero: perché non ero tornato indietro?

Mi ritrovai di nuovo tra gli alberi, ansimando. Tornavo verso l'alto, sui miei passi, sperando di trovare il sentiero da un momento all'altro, e sapendo nello stesso tempo che era troppo tardi, che non lo avrei trovato.
Quanto tempo impiegai a salire? Non so. Salivo nel sottobosco, tra i cespugli e i brevi tratti erbosi. Salivo strozzato dall'angoscia, senza trovare nessun sentiero, anzi, nessuna traccia di esseri umani.
Salivo sempre. Finché non fui di nuovo fuori del bosco, più o meno nello stesso punto in cui avrebbe dovuto iniziare il costone.
E naturalmente non c'era nessun sentiero. Nessun costone.
Ed era lo stesso punto in cui ero passato prima! L'enorme parete verticale sopra di me, la parete color inchiostro che segnava, in un certo senso, il punto in cui cominciava il costone, ebbene, la parete era sempre al suo posto, ma non vi era il minimo segno che indicasse la presenza di un sentiero.
Non poteva essere. Ero passato di lì un'ora prima, al massimo un'ora e mezza.
Mi portai più avanti che potevo, avvicinandomi pericolosamente al burrone.
Guardai sotto. Sopra. Spinsi lo sguardo fino al passo.
Cercai in ogni dove. Dietro ogni cespuglio, ogni roccia, fin dove mi era possibile arrivare. Nulla.
Ero pazzo? Se non lo ero, mi sembrava di stare per diventarlo. La testa cominciò a ronzarmi, a pulsare. Se stavo sognando, era di gran lunga il peggiore incubo che avessi mai avuto.
Perché io?, mi domandai furiosamente.
Non c'era nessun sentiero. Rientrai nel bosco, tornai verso il basso, verso il paese che non c'era più, con la testa in fiamme, la mente persa dietro pensieri farneticanti. Non ricordo più nulla di quei momenti, o forse, come sempre in questi casi, la coscienza respinge l'orrore.
Quando tornai in me, ero seduto in riva al Piave e piangevo. Piangevo istericamente, come non mi succedeva da tanti anni, ma questo non aveva il potere di fare ricomparire il paese o perlomeno qualche sentiero, per lontano che fosse.
Un unico, immenso bosco si stendeva intorno a me. In un altro momento avrei apprezzato questo spettacolo più di ogni altro particolare del paesaggio, ma allora ... era come se ogni albero fosse una sbarra, e il mondo un'immensa prigione a prova di evasione.
Quando riuscii a smettere di piangere, mi tirai su a fatica, e cominciai a trascinarmi lungo la riva del fiume. Lentamente. Tanto non c'era nessun posto in cui andare.
Raccolsi i miei pensieri, e cercai di ragionare sulla mia situazione. Era possibile che mi fossi perso? Questa sembrava l'unica spiegazione logica; e tuttavia dovevo arrendermi all'evidenza del paesaggio, paesaggio uguale a quello che avrebbe dovuto esserci in quel punto. Non potevo sbagliarmi.
Conoscevo nei minimi particolari la forma di tutte le montagne circostanti. Da ogni punto della valle sarei stato in grado di dare un nome a ogni vetta visibile. E ancora una volta lo feci. Enumerai tutte le cime visibili, con l'altezza di ciascuna di esse.
Sapevo dove mi trovavo. In un certo punto in riva al Piave, e intorno avrebbero dovuto esserci i segni della presenza del paese, a partire dal paese stesso.
E invece, ancora una volta, non c'era nulla. Nessun segno di presenza umana.
Nessun rifiuto, niente lattine o cartacce. Neanche gli immancabili mozziconi di sigaretta.
Ma tanto sapevo di non essermi perso. Qualunque strada avessi fatto per arrivare nel posto in cui mi trovavo, non poteva esistere un'altra valle identica nei minimi particolari.
Non mi ero perso. Ma allora? ...
Guardai per caso l'orologio. Segnava le 16 e 46. Ancora? ... Dopo un po' capii che era fermo. Un orologio al quarzo, di quelli con le lancette.
Quando si era fermato? Eppure sapevo che la pila era carica. Le 16 e 46.
Ero partito verso le 14, poco dopo pranzo. All'Arco avevo guardato l'ora, erano le 15 e 30. Poi mezz'ora per il passo, mezz'ora per raggiungere il bosco ... almeno quelli erano i miei tempi normali. Le 16 e 30 alla fine dei costoni ... l'orologio doveva essersi fermato MENTRE SCENDEVO NEL BOSCO.
Mi sentii agghiacciare. Non avrei creduto fosse possibile, considerato lo stato angosciante in cui già mi trovavo.
E ora ... ma il sole, il sole?

Non mi sembrava che il sole si muovesse. Eppure ne era passato di tempo dalle 16 e 46. Come poteva trovarsi ancora così in alto?
Notai che non c'era vento. Non c'erano uccelli, né altri segni di animali.
Nessun rumore. Anche il fiume scorreva in perfetto silenzio.
E il sole ... Potevo controllare se le ombre si muovevano. In poco tempo avrei capito se il sole si muoveva o no.
Preferii non farlo.
Tuttavia sudavo copiosamente quando tornai a pensare a cosa poteva essere successo.
Allora non mi ero perso. E se non stavo sognando, non c'erano altre spiegazioni razionali. Dovevano essercene di irrazionali.
Guardai i boschi intorno a me.
Forse ero nel passato. Prima che i fuoriusciti austriaci arrivassero nella valle e fondassero il paese.
Perché no? Non doveva essere così, il paesaggio, prima di quel momento?
Ricordai di essermi sempre chiesto quale aspetto potesse avere avuto la valle prima di ...
E ora avevo la risposta. Forse ero stato troppo curioso. Forse ero stato un bambino cattivo ...
Cominciavo di nuovo a farneticare. Tremavo. Mi sedetti, e con un grande sforzo riuscii a riprendere il controllo.
Evidentemente ero nel passato. Inutile chiedersi come o perché. Ero nel passato, e probabilmente vi ero intrappolato. Dovevo quindi pensare a un sistema, se non per venirne fuori, almeno per sopravvivere.
Ero nel passato. Ma quanto tempo indietro? Un milione di anni? Probabilmente no. Non sono un geologo, ma sapevo che in un milione di anni l'aspetto delle montagne sarebbe cambiato, e forse anche di molto. E per quanto vedevo, non c'erano differenze sostanziali. Certo ero agitato, e forse mi sfuggiva qualche differenza nei particolari più piccoli. Ma differenze grosse non ce n'erano.
Un milione di anni ... impossibile. Centomila anni ... no, neanche centomila.
Diecimila anni. Ecco. Non più di diecimila anni. Forse anche meno. Forse solo due o tremila anni. O forse solo poco prima che arrivassero i primi abitanti.
E se erano solo duemila anni o poco più, potevano esserci insediamenti romani non lontano da lì ... certamente il Cadore, e forse anche il Friuli, era abitato in quell'epoca.
Speranze assurde. Che ne sapevo? Potevano essere diecimila anni. Potevo non essere nel passato, ma in una dimensione parallela in cui l'uomo non era mai esistito. Potevo essere in un mondo dove né le leggi della fisica né quelle della logica erano più valide.
Non lo saprò mai, per fortuna.
Ma intanto mi ero convinto di essere nel passato, in un passato non troppo lontano. Ero quasi sicuro che avrei trovato qualche città romana a breve distanza ... almeno dovevo provarci.
Avevo ripreso a camminare, e mi trovavo alla confluenza del Piave con un suo affluente. In quel punto le rive si allargavano molto, e restava libero uno spazio di alcune centinaia di metri intorno al punto della confluenza.
Sassi, pozze d'acqua, rami secchi. E un panorama più vasto.
Dove non c'era la minima traccia dell'uomo, naturalmente.
Ero passato di lì all'inizio della mia escursione. C'era un ponte sul fiume, proprio in quel punto, e lo attraversava la strada sterrata che scendeva giù da dietro la chiesa.
Oltre il fiume si diramavano due sentieri. A sinistra, quello che avevo preso solo poche ore prima. A destra, una larga mulattiera portava al passo Enge, il 'passo che ha la forma di un passo', come ero solito descriverlo ai miei amici.
Anche adesso il passo era lì, con quella sua curvatura quasi geometrica, ma lontano e irraggiungibile. Più lontano di quanto non lo fosse mai stato.
Una volta, tanti anni prima, avevo visto una Dune Buggy superare saltellando il Piave, proprio in quel punto, e tentare di risalire il corso del suo affluente. Tanti anni PRIMA?
Da bambino venivo spesso a giocare in quel punto. Da ragazzo venivo a cercare fragole o mirtilli nei dintorni.
Da adulto passavo spesso di lì, all'inizio o alla fine delle mie escursioni, poiché molti sentieri partivano o si incrociavano in quel punto.

E ora, in quel tempo-non-tempo, tutto era uguale e diverso.
Il sole era sempre nello stesso punto.
Tornai sui miei passi.
Avrei dovuto cercare un rifugio per la notte? Ma sarebbe venuta la notte?
E dove ci si rifugiava, in questi casi?
Non lontano dal posto in cui mi trovavo, c'era una caverna chiamata 'Buco dell'orso'. Dell'orso! C'erano stati certamente degli orsi, un tempo. Orsi.
Forse anche lupi.
Per quanto non vedessi nessun segno di animali, di nessun animale, rinunciai decisamente a dirigermi verso la grotta. Ma dove altro potevo andare?
E se avessi cercato subito di lasciare la valle? Non mi sembrava una cattiva idea. Prima me ne fossi andato, prima avrei trovato dei paesi.
Se ce n'erano. E poi, sarebbe stato così semplice lasciare la valle?
Guardai verso Ovest, verso il Veneto. Di solito era di là che si arrivava in paese, ma adesso ... il Piave formava un orrido poco lontano, e senza la comoda strada statale non sarei mai riuscito a passare.
Mi ero abituato troppo bene.
Allora ad Est ... la statale passava in due brevi gallerie, e la pendenza era maggiore; tuttavia non mi pareva che il fondovalle fosse così ripido da impedire la discesa. Potevo provare ad Est.
D'altra parte, di passare a Sud non se ne parlava neanche. I sentieri, quando c'erano stati - o dovevo dire ci sarebbero stati - erano spesso stretti e ripidi. Senza un sentiero non sarei mai riuscito a scavalcare uno dei passi.
Invece a Nord doveva essere possibile passare. In fondo era da Nord che erano venuti gli abitanti del paese. Erano passati da un passo che si sarebbe chiamato - appunto - passo dei 'Sappadini'. Se erano passati loro, sarei passato anch'io. Nell'altro senso, ma sarei passato.
D'altronde dovevo restare lì a fare il Robinson Crusoe? Non era così facile come nei film o nei libri. Dovevo trovare un rifugio o costruirmene uno. Non avevo nessuna attrezzatura adatta, con me. Forse potevo costruire una specie di baracca con i sassi ... ma il tetto? Forse avrei trovato dei rami?
Mi sembrava tutto così fuori portata delle mie possibilità. E cosa avrei mangiato? Bacche? Ma cosa sono le bacche? Forse potevo trovare fragole e mirtilli, ma sarebbero bastati? E se poi non li avessi trovati?
E se qualche animale mi avesse assalito? E infine, come sarei sopravvissuto all'inverno, cosa avrei mangiato se non fossi morto di freddo?
L'acqua del fiume scorreva silenziosamente davanti ai miei piedi. Tutto era silenzio, immobilità. Il sole era sempre al suo posto, il mio orologio sempre fermo.
Non sapevo neanche se avevo fame o se ero stanco. Ero troppo schiacciato dalla situazione allucinante in cui mi trovavo per pensare ad altro.
Certo, forse per me, estraneo in quel mondo, il tempo non passava. La notte non sarebbe mai venuta, né l'inverno, né la fame o la stanchezza. Di che mi preoccupavo?
Comunque avevo da bere in abbondanza. Potevo anche restare qualche giorno senza mangiare, e senza perdere troppo le forze. In qualche giorno potevo essere lontano da lì, potevo aver trovato qualcuno. Avrei trovato qualcuno, se c'era qualcuno da trovare. Dovevo provarci. Se poi la notte non fosse venuta ... potevano esserci dei lati positivi. Forse avrei corso meno pericoli.
E così risi pure. Di un riso angosciante, disperato. Beh, adesso avrei fatto meglio ad andare. Dovevo cercare di passare ad Est. Se non fossi riuscito, potevo sempre risalire il Piave fino alle sorgenti, e poi passare a Nord.
Dovevo andare.
Ma poi la risata, quell'assurda risata senza echi, mi morì in gola.
Ero tornato nel punto in cui ero uscito dal bosco. E alzando gli occhi verso la montagna, le vidi. Due sottili linee sulla parete.
Il sentiero. I costoni di roccia. Lì, visibili come sempre, come al solito.
E intorno a me, più irreale che mai, il bosco. Ancora una volta, nessun paese, nessuna strada. E quel sole che non si muoveva.
Dimenticai tutto, il passato, Robinson Crusoe, il passaggio ad Est o a Nord.
Un momento dopo ero nel bosco, e correvo, correvo verso l'alto senza guardare dove mettevo i piedi, senza badare allo sforzo, dimenticando quanto avessi sempre odiato correre in salita.

E invece correvo a più non posso. Per quanti minuti l'universo si ridusse a una corsa verso l'alto? Più che ansimare, boccheggiavo. Il cuore sembrava volesse sfondarmi il petto, eppure non rallentai il passo neanche un istante.
E all'improvviso mi ritrovai sul sentiero.
Largo e preciso, scavato nel sottobosco, nei cespugli. Da una parte scendeva, verso chissà dove, dall'altra saliva, verso ... verso cosa?
Continuai a correre verso l'alto, stavolta passando dentro le pozzanghere, raddoppiando i miei sforzi. In venti minuti avevo percorso una strada che normalmente mi avrebbe richiesto un'ora.
E poi fui fuori del bosco. Sopra di me la parete color inchiostro, davanti a me il costone, poi il secondo costone, poi il passo.
Barcollavo. Arrivai sul costone. Caddi a terra, e poi guardai indietro.
E naturalmente c'era il paese, c'era la strada, e i pascoli sopra e sotto, e lungo tutto il lato Nord della valle il bosco era stato tagliato per fare posto alle opere dell'uomo. Vedevo le automobili, piccole ma inconfondibili, passare sulla statale, e potevo sentire gli uccelli che passavano sulla mia testa per tuffarsi nella valle.
Il mio orologio segnava le 17.
Gridai. Gridai con quanta forza mi era rimasta, picchiando i pugni sui sassi del sentiero. Poi mi accasciai, completamente esaurito dagli sforzi e dalla tensione che si scioglieva.
Molto più tardi mi tirai su. Mi sentivo meglio, ma non volli scendere nel bosco. Non volevo perdere di vista il paese. Invece salii, tornando verso il passo, voltandomi indietro ogni momento.
Superai il cancello di legno. Raggiunsi il passo. Esitai. Se avessi continuato avrei comunque perso di vista il paese.
Allora mi sedetti, e aspettai.
Venne la sera, e le luci si accesero in tutta la valle. Le guardai, le contai una ad una. Venne la notte, e continuai a guardarle, senza mai chiudere gli occhi per un istante.
Venne l'alba, e le luci si spensero. Io non mi muovevo. E fu così che in mattinata mi trovarono le guardie forestali, partite alla mia ricerca.
Dissi che mi ero perso. Che ero stanco, che forse mi ero slogato una caviglia.
Pretesi l'elicottero. Non dovevo, non potevo scendere nel bosco, e perdere di vista il paese. Alla fine dissi che avrei pagato l'elicottero, di tasca mia; che avrei pagato qualunque cifra, lì, sul posto.
E l'elicottero venne, e io tornai in paese passando sopra il bosco.
E qualche giornale raccontò di questo turista che aveva preteso l'elicottero pur essendo apparentemente in buone condizioni.
Ora sapete. Non fatemi delle domande, non cercate di sapere. Io non voglio sapere, né cerco delle risposte.
Ma soprattutto, non chiedetemi più di attraversare un bosco.


Feci scegliere a Silvia se dare al racconto un'impronta più horror o fantascientifica, e lei scelse la prima soluzione; se avesse scelto la seconda avrei aggiunto alla fine un epilogo in cui la faccenda sarebbe stata spiegata col passaggio attraverso una perturbazione dello spazio-tempo o qualcosa del genere; mi sarei servito, probabilmente, di una classica figura di "amico scienziato" che avrebbe spiegato tutto al protagonista, anni dopo gli eventi narrati.
Lo stile del racconto è molto influenzato dalle opere di Lovecraft, che stavo leggendo in quel periodo, ma la trama si ispira palesemente al famoso racconto di Brian Lumley "Dove portano le strade" ("No way home"). Una certa influenza l'ha sicuramente avuta anche il resoconto dell'avventura vissuta nel 1901 da due donne inglesi, Anne Moberly ed Eleanor Jourdain, in visita a Versailles. La loro avventura fu descritta nel libro "An adventure", ed è tuttora oggetto di discussione tra scettici e parapsicologi.