Erano molti anni che pensavo di scrivere questo racconto, ma non avevo mai trovato un finale soddisfacente. Alla fine ho avuto un'idea che, lungi dall'essere perfetta, almeno sta in piedi.


Dormire; sognare, forse. Ecco il punto:
perché nel sonno di morte quali sogni vengano
a noi, ormai sciolti da questo legame,
è pensiero che deve farci riflettere.

(William Shakespeare)


SOGNARE, FORSE


Sognavo.
Sognavo di trovarmi in una foresta di grattacieli, di volteggiare tra immense torri di metallo splendente, o forse di cristallo.
Sognavo di passare da una torre all'altra, di ritrovarmi a guardare dall'alto queste costruzioni, aeree e svettanti, mentre una luce, sempre più forte, sembrava quasi avvolgere i miei movimenti.
Sognavo di salire, di allontanarmi da quelle che ora mi sembravano guglie audacissime, le cui fondamenta si perdevano in chissà quale remoto abisso.
E sognavo di confondermi nella luce e di lasciare dietro di me anche le cime più alte, di diventare io stesso parte di un cielo senza nuvole.
Sognavo. Sognavo, e nel sogno quei grattacieli, quelle torri, quelle guglie svanivano lontanissime, ad una distanza infinita sotto di me, una distanza più grande di quanto io potessi concepire.

Ma quando quel cielo, e quella luce dentro cui ogni cosa sembrava confondersi e svanire assunsero infine contorni meno vaghi, mi resi conto di essere ormai sveglio: era semplicemente il soffitto della mia stanza da letto ciò che stavo fissando.
Ero sveglio, dopo una notte passata tra sogni strani e sfuggenti: e prima che potessi trovare il tempo di rincorrere le mie visioni, stirai le braccia in un gesto istintivo e con lo sguardo ancora assonnato intravidi l'ora sul mio orologio da polso.
Mi misi a sedere, con un sobbalzo. Le nove! Ero ancora a letto, quando avrei già dovuto essere al lavoro! La sveglia, accidenti: perché non aveva suonato? Eppure ero sicuro di averla caricata regolarmente, la sera prima: non me ne scordavo mai. Né si era fermata: la vedevo benissimo, sul comodino accanto al letto, segnare a sua volta le nove, e potevo sentirne il ticchettio.
Ma non avevo il tempo di preoccuparmi della sveglia; mi scaraventai fuori dal letto e annaspai verso il bagno, quasi inciampando nelle mie pantofole: intanto cercavo di pensare a qualche scusa, visto che il ritardo era ormai irrecuperabile. Nella migliore delle ipotesi potevo cercare di ridurlo a mezz'ora, anche se avrei dovuto lavarmi e vestirmi in fretta e furia, saltare la colazione e sperare nella clemenza del traffico. Forse avrei anche dovuto rinunciare a farmi la barba, e tanto peggio per le occhiatacce che il mio aspetto trasandato avrebbe fatalmente attirato.

Ero in bagno, intento a lavarmi i denti, quando cominciai ad accorgermi di qualcosa che, impercettibilmente, quasi contro la mia volontà, mi indusse a rallentare il ritmo frenetico dei miei gesti.
Qualcosa di strano, indubbiamente; qualcosa che non andava, e che aveva bisogno di tutta la mia attenzione: in quel momento avrei dovuto pensare soltanto a precipitarmi fuori di casa, correre in garage, saltare in macchina, cercare di raggiungere l'ufficio prima che il ritardo diventasse ingiustificabile ... cos'altro poteva succedere? Non ero già abbastanza nei guai?
Eppure qualcos'altro c'era. Qualcosa di più grave, evidentemente, di un ritardo sul lavoro, fosse anche di un'ora o più: qualcosa che si stava insinuando nella mia mente, subdolamente, ma che non mi riusciva di scacciare. E più tentavo di non pensarci, più sentivo che dovevo occuparmene, e che dovevo far passare in secondo piano ogni altra preoccupazione.
Qualcosa che alla fine mi indusse a posare lo spazzolino e a dimenticare la mia fretta; e che ormai, cominciavo ad avvertirlo chiaramente, mi stava procurando un'inquietudine strana, quasi un'angoscia: era una sensazione che ancora non riuscivo ad afferrare, ma che montava inesorabilmente nella mia coscienza.
Il ritardo con cui sarei arrivato in ufficio non mi sembrò più un problema.

Tornai lentamente in camera da letto, animato da sensazioni strane e sfuggenti, ma col pensiero fisso alla sveglia: dovevo controllarla meglio? Dovevo capire perché non avesse suonato? O il problema si trovava altrove?
Guardai la sveglia: e finalmente capii. Non era quello il problema; almeno, non ne era che una parte insignificante.
E mentre il ticchettio della sveglia risuonava con una chiarezza prima sconosciuta in un silenzio altrettanto ignoto, ed io sentivo crescermi dentro l’angoscia, aprii le persiane nella mia stanza e spalancai la porta-finestra: e infine mi ritrovai sul balcone, come tante altre volte prima di allora, come tante altre volte a guardare il mondo ai miei piedi, i palazzi intorno a me, la vita che ad ogni ora del giorno e della notte brulicava per le strade della mia città.
Quella vita che quel giorno, in quell'ora, non esisteva più.
Tutto era silenzio assoluto.
Tutto era fermo, immobile. E per quanto io spingessi lo sguardo fin dove mi era possibile arrivare, non una persona, non un rumore, non un segno di vita in una città che pure non mostrava un volto diverso dal solito: città ricca di negozi, di automobili parcheggiate in ogni dove, di case di bell'aspetto e di strade lunghe e spaziose; e tutto questo si stendeva sotto di me, e intorno a me, dappertutto, come sempre era stato.
Eppure non c'era nessuno. Né uomini, né animali. Nessun rumore che indicasse una qualsiasi attività. Un silenzio totale, assoluto, come mai avevo sentito prima di allora: non sulla cima delle montagne, non nelle caverne più profonde.

Rimasi un tempo lunghissimo - o almeno così mi parve - come paralizzato, schiacciato più dal silenzio stesso che dall'irrealtà della situazione; incapace non solo di agire, ma anche di muovermi, di parlare, di articolare un pensiero. Semplicemente ero di fronte a qualcosa che esulava dal mio mondo, impossibile da affrontare, forse impossibile anche da concepire: qualcosa che non potevo scacciare o ignorare, e da cui non potevo fuggire.

Non so come e quando tornai in me, e mi sentii nuovamente capace di pensare razionalmente; solo in seguito mi resi conto che dovevano essere passati soltanto pochi minuti.
"Che sta succedendo?"
La domanda affiorò lentamente: capire, dovevo soprattutto capire cosa fosse accaduto e poi, forse, sarei riuscito a organizzarmi in qualche modo, a trovare un rimedio, una soluzione: quale, era impossibile a dirsi. Ma intanto dovevo capire.

Mi riscossi. Guardai nuovamente in strada, stavolta con maggiore attenzione, alla ricerca di qualcosa, di qualche indizio che potesse chiarire il mistero, e nuovamente non vidi nulla di strano: le macchine erano allineate lungo i marciapiedi, come sempre, ma non ve n'era una che percorresse qualche strada, o stesse uscendo da un parcheggio. Mi sporsi a guardare più lontano: a qualche centinaio di metri di distanza c'era un incrocio abbastanza importante, e vidi chiaramente che il semaforo era in funzione, e passava regolarmente dal verde al giallo, e poi al rosso; ma a parte questo non vi era alcun segno di vita.
In quanto ai negozi, molti erano chiusi; ma molti altri erano aperti, e mi sporsi ancora per scrutare oltre le loro vetrine. E, ancora una volta, non intravidi nulla che si muovesse, nulla che lasciasse capire cosa stesse succedendo.

Poi guardai attentamente il palazzo di fronte: quasi tutte le finestre avevano le persiane alzate, e un paio erano aperte, ma non mi riuscì di vedere nessuno, neanche un movimento, nelle stanze che potevo scorgere dal mio balcone. Ed anche su quello proprio di fronte al mio tutto era in ordine, come ogni giorno: un tavolino basso, tre sedie, qualche vaso di gerani, la caldaia dell'acqua calda. Tutto tranquillo, tutto immobile.
Vasi e caldaie facevano bella mostra di sé in molti altri balconi, in uno dei quali mi sembrò anche di scorgere una gabbietta per uccelli: anch'essa vuota, anch'essa silenziosa.

Mi girai, per esaminare anche il mio palazzo, che mostrava le stesse finestre, gli stessi balconi, lo stesso aspetto di sempre; ma non vi era nessuna persona, né si notava qualche movimento, per quello che potevo vedere. E nessun rumore.

Cominciai ad avvertire un senso di vertigine; poi, spinto da un impulso improvviso, tornai a sporgermi dal balcone, e gridai: "C'è nessuno?".
Gridai una volta, due, tre, prima di rassegnarmi; l'unico suono che potevo udire, oltre quello della mia stessa voce, era una debolissima eco riflessa dai palazzi circostanti, un'eco che mai, in condizioni normali, sarei riuscito a percepire, e che rendeva ancora più irreale il silenzio che mi circondava.
Diedi un pugno sulla ringhiera, quasi sperando che le sue vibrazioni avessero il potere di spezzare quell'incantesimo; poi, in preda a un'angoscia sempre crescente, rientrai in casa, disperato ma deciso a fare qualcos'altro, a organizzarmi ... ma cosa potevo fare, di concreto? La situazione in cui mi trovavo era troppo assurda, troppo allucinante per poterci ragionare sopra: non vedevo soluzioni, per quanto cercassi di mantenermi calmo e di riflettere.
Mi lasciai cadere sul letto, con la testa fra le mani, ma quasi subito fui riscosso da un'idea improvvisa: balzai nuovamente in piedi, eccitato come se quel fugace pensiero avesse potuto, da solo, far ricomparire qualcuno; non che avessi davvero trovato una soluzione, dopotutto, ma almeno dovevo tentare, tentare subito e procedere con metodo ... forse avrei almeno trovato una spiegazione; forse sarebbe stata banale.

Avevo un telefono vicino al letto; ne afferrai la cornetta, e composi rapidamente il numero del mio ufficio.
Dall'altra parte, qualcosa suonò; uno squillo, un altro, un altro ancora ... solo dopo il decimo mi convinsi che, con ogni probabilità, non c'era nessuno che potesse rispondere. Così come non c'era nessuno in giro.
Ricordavo a memoria molti numeri di telefono; lottando per restare calmo, per non farmi sopraffare dal panico, provai a telefonare ad alcuni negozi nei dintorni - negozi sempre aperti, a quell'ora -, sempre senza ottenere risposta. Infine cominciai a chiamare i miei amici e i miei parenti.
Dopo una ventina di tentativi, tutti senza risposta, lasciai cadere la cornetta e tornai a prendermi la testa fra le mani; poi, in un ultimo sussulto di energia, mi riscossi di nuovo e chiamai tutti i numeri di emergenza che mi vennero in mente: polizia, vigili del fuoco, ospedali, operatori telefonici.
E sempre, sempre, gli stessi squilli senza risposta, dovunque chiamassi.

A un tratto mi ricordai che non esisteva solo il telefono. C'erano altri sistemi, ugualmente efficaci, e persino più rapidi, per sapere qualcosa. Senza neanche riattaccare, mi precipitai in soggiorno e accesi la televisione: ci vollero dieci secondi, non di più, prima che sullo schermo apparisse qualcosa. Dieci secondi che, come nei film o nei romanzi, mi parvero davvero un'eternità.

Mi ci volle una buona mezz'ora, invece, prima di convincermi che il mio apparecchio non riceveva alcun segnale; che nella miriade di puntini che ruotavano vorticosamente davanti ai miei occhi non c'era neanche l'ombra di un'immagine, per quanto indistinta o disturbata potesse apparire; e che tutti i canali offrivano lo stesso, triste spettacolo, in tutte le bande disponibili.

Provai anche con la radio, tendendo le orecchie alla vana ricerca di un suono qualsiasi; ma alla fine, stanco di sentire solamente dei crepitii indistinti, tornai lentamente in camera da letto, mentre l'angoscia dentro di me cresceva come un fiume in piena, minacciando di travolgermi in ogni momento. Non c'era più nessuno in tutto il mondo? A quel pensiero mi sentii quasi svenire, e dovetti appoggiarmi a una sedia per non cadere in terra.
Lottando contro la nausea crescente, quasi in trance, cercai di raccogliere tutte le mie forze: infine, riuscii a sferrare un pugno contro il muro, e il dolore mi fece tornare alla realtà, bruscamente, nonostante una parte di me cercasse ancora di sfuggirvi; mi resi conto, lentamente e dolorosamente, che impazzire poteva essere più facile di quanto avessi mai pensato, e che, probabilmente, quello sarebbe stato il mio destino.
A meno che non mi fossi svegliato. Dormivo ancora? Per un momento pensai anche a questa possibilità: ma di solito, quando avevo un incubo, mi svegliavo subito: e ora? Perché non accadeva la stessa cosa?
No, non dormivo.

Raccolsi la cornetta del telefono, la rimisi a posto, e mi vestii: dovevo uscire di casa, in modo da avere un quadro più chiaro della situazione. Forse avrei anche potuto rintracciare altri superstiti: nessuna catastrofe poteva far scomparire ogni forma di vita dall'intero pianeta. Io stesso ero ancora vivo!
Controllai di aver preso le chiavi di casa, infilai in tasca il mio telefono cellulare, e uscii sul pianerottolo.

Che potevo fare per prima cosa? Non avevo un piano, né un'idea precisa. Ma mentre mi chiudevo alle spalle la porta di casa, adocchiai quella dei miei vicini: senza dubbio potevo controllare se negli altri appartamenti del palazzo ci fosse ancora qualcuno, vivo o morto. E potevo estendere le ricerche a tutta la città, se necessario.
Suonai il campanello dei miei vicini. E come era accaduto con tutte le mie telefonate, gli squilli risuonarono a lungo, ma invano: dall'appartamento non provenne alcuna risposta, né un rumore qualsiasi.
Bussai: suonai nuovamente, con sempre maggiore insistenza; infine cominciai a picchiare sulla porta in modo da fare più rumore possibile: ma nulla cambiò.
Apparentemente, nessuno era in casa; o quantomeno, nessuno era in grado di sentire i miei colpi.
Salii al piano di sopra, e suonai ad entrambi gli appartamenti. E, di nuovo, non vi fu nessuna risposta, né percepii qualche rumore, nonostante sopra di me vivesse una vecchia signora che non usciva quasi mai di casa.

Il piano sopra il mio era anche il più alto della palazzina: così tornai indietro, scesi ai piani inferiori, e continuai a suonare ad ogni porta; ma per quanto rumore facessi, per quanto gridassi con tutto il fiato che avevo, mai vi fu una risposta; mai un segno di vita.

Mi precipitai fuori dal palazzo, in strada, in quel deserto irreale e privo di suoni, mentre l'angoscia dentro di me tornava a crescere, minacciando un'altra volta di soffocarmi. Con il fiato che mi rimaneva gridai di nuovo "C'è nessuno?", come avevo fatto dal mio balcone, e di nuovo non il minimo rumore venne in risposta alle mie grida.

Fui preso da una sorta di frenesia; corsi al negozio più vicino, un piccolo bar che sembrava aperto, e in effetti lo era: ma nonostante tutto sembrasse in ordine, al suo interno, nessuno comparve, per quanto io continuassi a gridare.
Conoscevo bene il locale; girai intorno al bancone, passai in cucina, chiamai di nuovo: tutto inutile. Tutto tranquillo, tutto deserto.
Tornando verso il bancone, quasi senza rendermene conto, allungai la mano verso una delle molte bottiglie allineate lungo la parete, la aprii, presi un bicchiere e mi versai un dito di liquore: un discreto whisky d'annata, secondo l'etichetta.
Bevvi; e in quel silenzio irreale perfino le mie sorsate sembrarono assordanti.

Poi, con un gesto di rabbia, gettai per terra bottiglia e bicchiere - il rumore che fecero, rompendosi, mi fece sobbalzare - e corsi fuori dal bar, cercando nuovamente di raccogliere le idee.
Mi guardai intorno; forse il liquore era riuscito, stranamente, a calmare i miei nervi. Mi guardai intorno e per la prima volta, quella mattina, cercai di ragionare.

Sapevo già che non tutti i negozi erano aperti; anzi, per la maggior parte sembravano chiusi. Cominciai a camminare; oltrepassai dapprima un negozio di abbigliamento, accanto al bar, e quindi uno di elettrodomestici, entrambi chiusi e con le saracinesche abbassate; era aperta, invece, la merceria accanto.
Aperta, ma vuota e silenziosa come tutto il resto.

I tre negozi seguenti erano chiusi; poi trovai aperti, uno dopo l'altro, un ferramenta e un negozio di giocattoli; infine giunsi al primo incrocio dopo il mio portone. Guardai speranzoso nel viale trasversale, ma vidi subito che la situazione si ripeteva, immutabile, a perdita d'occhio: nessuno in giro, nessun rumore, nessun segno di vita; e qualche negozio aperto, ma silenzioso.

Sul marciapiede di fronte la scena non cambiava: contai, nel palazzo dirimpetto al mio, quattro negozi aperti e sei chiusi; e anche negli isolati circostanti, da quanto riuscivo a vedere dal mio punto di osservazione, i negozi chiusi sembravano essere in leggera maggioranza.

C'era forse un criterio che accomunava quelli aperti? Magari le dimensioni, o il numero di vetrine? Sperando che ci fosse davvero, ne passai molti in rassegna, senza muovermi dall'incrocio: ma, come temevo, non vi trovai nessuna logica, nessun criterio; e se anche ci fosse stato, scoprirlo era al di là delle mie possibilità.
D'altra parte, aperti o chiusi che fossero i negozi, non faceva una gran differenza: il silenzio irreale e l'immobilità che circondava ogni cosa rendevano tetri gli uni quanto gli altri; a meno che non trovassi qualcosa al loro interno ... ma cosa? Attraversai la strada ed entrai in una rosticceria, dove cercai vanamente qualche traccia, qualche indizio che potesse gettare un po' di luce su quanto stava accadendo; invano. E invano provai con un negozio di abbigliamento, poco distante: sul bancone si trovava un campanello, funzionante, ma nulla e nessuno rispose ai miei richiami.

Allora provai nuovamente a telefonare a qualcuno, dapprima utilizzando i telefoni dei negozi che trovavo aperti, poi servendomi del mio cellulare: infine provando dalle cabine che incontravo lungo la strada.
E poiché non venivo a capo di nulla, cominciai a suonare a tutti i citofoni; finché, stufo di non ricevere risposte, e arrivato ormai a qualche isolato da casa mia, mi decisi a rompere il parabrezza di un'automobile: sul sedile anteriore avevo intravisto un giornale che mi affrettai a prendere, una volto rotto il vetro, nella speranza di trovarvi qualche notizia che potesse chiarire il mistero; ma vidi subito che risaliva a diversi giorni prima, e nella macchina non riuscii a trovare nient'altro che potesse essermi d'aiuto.

Erano ormai le undici del mattino; avevo camminato per quasi un chilometro, ero entrato in tutti i negozi che avevo incontrato lungo la strada, avevo fatto almeno un centinaio di telefonate, e non ero riuscito a scoprire nulla: nessun segno di vita, nessun indizio che potesse farmi capire cosa fosse successo.
Dovevo forse entrare a forza in qualche appartamento? Capire se tutti fossero chiusi in casa, vivi o morti?
Poi qualcosa attrasse la mia attenzione, inconsciamente. Guardai il cielo, quasi completamente sereno, e vidi uno stormo di uccelli muoversi lentamente, verso nord.
Uccelli? All'improvviso mi resi conto che erano i primi esseri viventi che vedevo, quel giorno: non tutto era perduto, allora? Forse da qualche parte la vita continuava?

Gridai, in direzione dello stormo lontano; agitai le braccia, freneticamente: speravo forse che gli uccelli mi sentissero? O che mi vedessero? Che scendessero verso di me, a spiegarmi cosa stava succedendo?

Ma gli uccelli si allontanarono verso nord e poi sparirono; io, invece, colpito da un pensiero, mi fermai a riflettere.
Perché non c'erano animali in giro, tranne gli uccelli? E perché questi non scendevano verso terra? In quel silenzio, in quella immobilità totale, me ne sarei certamente accorto: se solo un canarino si fosse avvicinato a un centinaio di metri, lo avrei sentito facilmente.
Quindi il problema riguardava tutti gli esseri viventi, animali compresi ... tranne gli uccelli, che tuttavia rimanevano in aria senza mai posarsi.
Fui colpito da un'idea improvvisa, agghiacciante: forse tutti erano stati uccisi da un misterioso gas, da qualcosa che non saliva oltre una certa altezza, così che solo gli uccelli erano scampati ... ma dopotutto, perché io ero ancora vivo? Qualsiasi cosa avesse provocato la catastrofe, gas, radiazioni o chissà che altro, non capivo perché proprio io dovessi esserne immune. Non aveva senso.

Né la cosa mi consolava: trovarmi da solo in quelle strade vuote, eppure così ordinate, così normali in apparenza, eppure silenziose, era un'esperienza che nessuno poteva sopportare a lungo; ed io, che già da un paio d'ore vagavo pericolosamente sull'orlo di un baratro sconosciuto, non valevo certo più di chiunque altro.
Dov'erano finiti tutti? Perché alcuni negozi erano aperti?
Senza quasi rendermene conto, tornai verso casa mia, sperando forse, inconsciamente, di trovare la soluzione là dove tutto era cominciato; e mentre camminavo cercavo di stare calmo, di pensare, di riflettere sulla situazione.

Era possibile che qualcosa fosse accaduto proprio mentre i negozi stavano aprendo? Forse questo avrebbe spiegato perché molti fossero rimasti chiusi, anche se altri particolari non tornavano.
Per esempio, io mi ero svegliato alle nove, cioè proprio all'orario di apertura dei negozi: se la teoria che stavo elaborando era giusta, il "qualcosa" doveva essere successo solo pochi minuti prima del mio risveglio. E in un tempo così breve tutte le persone, tutti gli animali erano scomparsi senza lasciare traccia?
Era una teoria che spiegava ben poco; soprattutto non spiegava perché proprio io non fossi scomparso.
Ed era comunque impensabile che tutti potessero sparire così rapidamente, qualsiasi cosa fosse successa: senza dubbio moltissime persone, verso le nove, si trovavano ancora in casa, e molte ancora addormentate; e che dire degli invalidi, degli anziani, delle persone non in grado di spostarsi da sole? Sparite anche quelle? Se così non fosse stato, avrei dovuto udire innumerevoli grida d'aiuto.
Invece, nulla.

Attraversai la strada non lontano da casa mia, e nel farlo notai un altro stormo di uccelli che si allontanava verso nord.
Anche questi non si avvicinavano a terra.

Ripensai alla vecchia signora che abitava sopra di me: stavolta avrei sfondato la porta e l'avrei cercata dappertutto. E se non l'avessi trovata mi sarei introdotto in qualche altro appartamento, in un modo o nell'altro: per quanto la gente potesse aver lasciato tutti i negozi incustoditi e in perfetto ordine, in qualche abitazione avrei certamente trovato qualcosa di strano, qualche letto ancora disfatto, qualche colazione non terminata. Scomparire in quel modo era semplicemente impossibile: una spiegazione doveva esistere! E non potevo non trovarla.

Quando ebbi raggiunto il portone della mia palazzina, cominciai a riflettere su un'altra strana circostanza. Ogni cosa sembrava funzionare: in casa mia c'era elettricità, e così pure nelle altre abitazioni e nei negozi - citofoni e campanelli suonavano -; i telefoni non erano fuori uso, e l'acqua scorreva regolarmente.
Nonostante tutto, non osavo prendere l'ascensore. Mentre salivo le scale, mi chiesi se i servizi essenziali fossero automatizzati, e di quanta autonomia disponessero. E mi risposi che probabilmente dovevano esserlo. Anzi, che lo erano senz'altro, e che avrebbero funzionato ancora a lungo. Settimane. Forse mesi.
O per qualche motivo incomprensibile c'era ancora qualcuno, e per di più al lavoro, nelle centrali elettriche e in quelle telefoniche?

Aprii la porta di casa, immerso nei miei pensieri; cosa dovevo fare? Cosa potevo fare, esattamente?
Quasi senza volerlo, mi ritrovai in camera da letto, dove tutto era cominciato, e all'improvviso mi tornò in mente il primo particolare insolito di quella giornata: la sveglia che, inspiegabilmente, non aveva suonato. Perché mai? Forse era il momento di indagare anche su questo piccolo mistero che, a meno di un'incredibile coincidenza, non poteva essere del tutto estraneo all'incubo che mi stava avvolgendo.

Eppure, almeno in apparenza, il mistero non era poi tale: la suoneria della sveglia, un vecchio modello meccanico, era bloccata dall'apposito perno, come se la sera prima mi fossi semplicemente scordato di sbloccarla. Ma me ne ero veramente scordato?
In tutta la mia vita mi era capitato solo una volta, dopo una bevuta troppo abbondante, di lasciare la suoneria bloccata: in alcune cose ero meticoloso fino all'inverosimile, e l'uso della sveglia era una di queste.
Certo, in fondo non era impossibile che mi fosse successo di nuovo: ma proprio quel giorno?
Fissai cupamente la sveglia, come se i suoi ingranaggi contenessero chissà quali segreti: no, non poteva, non doveva essere una coincidenza; ma quale rapporto vi fosse tra una sveglia che non aveva suonato e la scomparsa di ogni forma di vita ... era una cosa molto al di là della mia comprensione.

A un tratto fui colpito da un pensiero improvviso; un pensiero del tutto assurdo, ma in fondo non più della situazione in cui mi trovavo.
Forse mi ero svegliato durante la notte? Forse era successo qualcosa che non ricordavo, ma che mi aveva indotto a bloccare, volontariamente, la suoneria della sveglia?
L'ipotesi, pur priva di senso, aveva qualcosa di inquietante, e sentivo che non doveva essere del tutto infondata. Mi ero forse alzato, ero uscito sul balcone, avevo visto le persone scomparire e, sapendo per questo di non dovermi più recare in ufficio, avevo bloccato la suoneria?
Uscii sul balcone, cercando di ricordare.
Nulla era cambiato, da quella mattina.

L'ipotesi era palesemente assurda: come avrei potuto tornare a letto, se davvero avessi assistito alla scomparsa di tutti gli esseri viventi? Bloccare la suoneria della sveglia sarebbe stata l'ultima delle mie preoccupazioni!
E poi, perché mai avrei dovuto scordare una cosa simile? E perché non sarei scomparso insieme agli altri? Perché ero rimasto?

Le solite domande, senza risposta; forse la chiave del mistero era davvero nella sveglia, ma dovunque fosse non potevo arrivarci.
Impotente, rientrai in casa, cercai le chiavi della mia automobile, ed uscii nuovamente, deciso a frugare in ogni appartamento finché non avessi scoperto qualcosa; e se avessi avuto delle difficoltà, mi sarei procurato da qualche parte l'attrezzatura necessaria a scassinare porte e finestre: chi poteva impedirmelo?

Comunque sfondare la porta dell'appartamento sopra il mio fu meno difficile del previsto: forse l'angoscia e la disperazione avevano moltiplicato le mie forze, o forse la vecchia signora non si era chiusa a chiave; due calci ben assestati furono sufficienti.

Ciò che vidi, purtroppo, assomigliava a tutto quello che avevo visto fino a quel momento: una casa tranquilla, pulita, ordinata, in cui tutto era al suo posto; ma anche una casa in cui non c'era nessuno, né la minima traccia di cosa fosse accaduto.
Il letto della signora era intatto; anzi, sembrava appena rifatto.
Né in cucina, né in bagno sembrava che fosse passato qualcuno: era come se la casa fosse stata appena riordinata, e per quanto andassi in giro ad aprire cassetti e a spalancare armadi e credenze, non trovai nulla fuori posto, nulla che facesse pensare che la sua padrona fosse scomparsa all'improvviso.
Poteva essere andata fuori città, magari a trovare qualche parente? Ma no, ricordavo di averla sentita, la sera prima, quando era andata in bagno e aveva fatto scorrere dell'acqua: e certo non poteva essersi allontanata nottetempo.
O lo aveva fatto?
Ma perché avrebbe dovuto riordinare tutto? Non sarebbe neanche stata in grado di farlo!

Non era possibile. Non era possibile che tutti gli appartamenti, tutti i negozi, fossero così in ordine.
Uscii, e cercai di sfondare anche la porta dell'appartamento adiacente; ma questa, probabilmente blindata, resistette a tutti i miei tentativi, finché non fui costretto a rinunciare e a tornare al piano di sotto, nella speranza di riuscire almeno a penetrare in casa dei miei vicini.

Sotto i miei calci, la loro porta cedette ben presto, uscendo addirittura dai cardini, e si abbatté a terra con un frastuono talmente amplificato dal silenzio irreale da sembrare quasi un'esplosione; il rumore mi fece trasalire al punto che dovetti fermarmi e riprendere fiato, anche se per un attimo soltanto. Poi mi calmai e mi decisi a entrare ... ma dentro di me già sentivo che non avrei trovato nulla e nessuno.
E così fu: tutto era perfettamente in ordine, come in ogni altro posto; nessuno era in casa, e non c'era nulla che potesse giustificare quell'assurda situazione. Come in tutti i negozi; come nella casa della vecchia signora.
All'angoscia si aggiunse la frustrazione: sarebbe stato lo stesso in ogni casa? In ogni città? Dovevo rimanere solo al mondo, e per di più senza avere la minima idea di cosa fosse successo? O di cosa avessi fatto per meritare quel destino?

La rabbia, la disperazione, ebbero il sopravvento: stufo di quell'ordine insensato, scaraventai per terra i soprammobili, aprii i rubinetti dell'acqua, feci a pezzi libri e giornali, disfeci i letti, rovesciai le sedie che mi capitarono sottomano.
Ma nonostante il disordine che avevo creato, la casa rimase immobile e silenziosa: come avvolta in una cappa insormontabile, un mantello soffocante e impossibile da sollevare.

Mi fermai ansimando, furioso anche con me stesso: ma con chi altri potevo prendermela?
La gente non scompariva così, e certo non dopo aver lasciato tutto in ordine. No, qualunque fosse la causa di tutto, non poteva risalire a pochi minuti prima del mio risveglio: qualcosa doveva veramente essere accaduto durante la notte, e tutti avevano avuto il tempo di mettere in ordine le loro abitazioni ... e poi erano scomparsi.
Uscii sul balcone, ripensando alla mia sveglia.
Fuori, nulla era cambiato.
Ma i negozi ... se era successo qualcosa durante la notte, perché alcuni negozi erano aperti? Forse qualcuno aveva deciso di mettere in ordine anche il luogo in cui lavorava, oltre che la propria casa?
Era assurdo, ovviamente.
E poi, perché io ne ero rimasto fuori? Perché proprio io?

Sì, qualcosa di orribile era accaduto durante la notte, ne ero quasi convinto; e forse tutti erano fuggiti il più rapidamente possibile.
Ma dove? Inoltre quell'ordine rimaneva inspiegabile; o forse era stato portato via qualcosa, ed io non me n'ero accorto? Spalancai gli armadi, i cassettoni dei miei vicini: tutti gli abiti sembravano al loro posto, dai calzini ai pesanti cappotti di lana.
No, non poteva essere. Quell'ipotesi non stava in piedi, per quanto io continuassi a pensare alla sveglia, alla suoneria misteriosamente bloccata. Ed io, perché non ero andato con gli altri? Anche i miei parenti, i miei amici erano scomparsi: possibile che nessuno avesse cercato di avvertirmi? Cosa avevo di così speciale?

Uscii dall'appartamento dei miei vicini e rientrai in casa mia, senza sapere più cosa fare; poi, seduto sul letto, tormentato dal pensiero dei miei amici scomparsi, provai ancora una volta a telefonare a qualcuno.
E provai, provai tutti i numeri che ricordavo, nella vana speranza che qualcuno mi rispondesse: e nessuno mi rispose.
Finché un pensiero orribile, ancora più assurdo degli altri, mi attraversò la mente: era possibile che tutti stessero fuggendo da ME?
Era assurdo, certo; ma cosa non lo era, in quel momento? Qualunque spiegazione, anche la più insensata, poteva essere quella giusta!

Quel pensiero mi soffocava; non riuscivo a scacciarlo, e ancora una volta mi trascinai sul balcone, quasi barcollando, nell'inutile speranza di percepire qualche mutamento in quel paesaggio che ormai conoscevo a memoria.
Cosa potevo avere di così mostruoso? Era possibile che anche i miei genitori mi avessero abbandonato così?
Un altro stormo di uccelli passava in cielo. Sempre diretto a nord, sempre senza mai posarsi al suolo.

Schiacciato dall'angoscia e da un senso di solitudine che non avrei mai creduto di poter provare, mi rannicchiai per terra, con la testa fra le mani; pensai a lungo ai miei genitori, ai miei amici, alle donne della mia vita; non ero sposato né avevo figli, e forse era meglio così: se non altro, avevo delle persone in meno da rimpiangere.

Ero rimasto solo, completamente solo; forse in qualche posto lontanissimo c'erano altri superstiti - superstiti a cosa, a quale catastrofe? -, ma per me cosa cambiava? Come rintracciarli? Come continuare a vivere, ora che tutte le persone che conoscevo, tutti coloro ai quali ero affezionato non esistevano più?
Nuovamente, mi vidi sull'orlo di un abisso senza fondo, come se solo in quel momento mi fossi reso conto di quanto fosse importante, nella mia vita, la presenza costante di altre persone; nella mia vita passata, purtroppo.
Una presenza a cui mi ero abituato al punto di non riuscire più ad apprezzarla: quante volte, in ufficio, avevo parlato male di qualche collega antipatico? Eppure anche quei colleghi mi mancavano, dolorosamente, inesorabilmente.
Che avevo fatto di male? Perché venivo punito così?
In quel mondo vuoto e ordinato, sarei comunque sopravvissuto; ma era vita, quella? Non sarebbe stato meglio scomparire insieme a tutti gli altri?

Non riuscivo più a scacciare quei pensieri orribili, per quanto insensati fossero; la mia mente prese a vagare per mondi sconosciuti, mentre il mio corpo rimaneva sul balcone, immobile come tutto ciò che lo circondava.
Quanto tempo passò? Quando riuscii a riscuotermi da quella disperazione infinita, il sole non era più così alto nel cielo; intorno a me nulla era cambiato, ed io non ero venuto a capo di nulla.

A fatica, mi alzai. Controllai di avere in tasca le chiavi della macchina e uscii nuovamente di casa; pochi minuti dopo ero in garage, chiedendomi se il pesante cancello metallico si sarebbe alzato, come al solito, al segnale del mio telecomando; o se per caso l'energia non sarebbe venuta a mancare proprio in quel momento.
Del resto, prima o poi sarebbe accaduto.
O forse no?

Il cancello si alzò; entrai in macchina e accesi il motore, il cui suono familiare mi diede un po' di conforto, dopo troppe ore passate in quel silenzio irreale. Uscii in strada, deciso a spingermi lontano, a cercare altrove qualcosa che non fosse in ordine, qualcosa che potesse aiutarmi a capire.

Accelerai, quasi temendo che il rumore provocato dalla mia automobile potesse far crollare quel mondo alieno che mi circondava. Tuttavia, rallentai al primo incrocio, come di consueto, e poi mi fermai addirittura.
Era assurdo: perché continuare a rallentare agli incroci, a fermarsi ai semafori, a controllare le vie laterali? Era un'abitudine dura a morire, evidentemente. O forse era l'inconscia speranza che comportarsi come se nulla fosse accaduto potesse far tornare tutto come prima?
Ma poi il silenzio e la solitudine ebbero il sopravvento: accelerai di nuovo, con rabbia, e corsi via, senza più badare alla strada; corsi via, come se allontanarmi dal mio quartiere, dove tutto era cominciato, potesse spezzare quell'incubo.

Corsi, senza più badare a nulla. Strade, incroci, semafori, negozi, palazzi, monumenti: tutto passava intorno a me come lo sfondo di un film, né sentivo il bisogno di fermarmi e controllare qualche posto; sapevo già che tutto era silenzio, deserto, immobilità.
Per quanto tempo guidai così? E pensare che spesso avevo sognato di poterlo fare! Quante volte, imbottigliato nel traffico, o semplicemente fermo a qualche semaforo, mi ero rammaricato del tempo perso? Quante volte avevo desiderato di poter correre liberamente per le strade della città, senza pericoli, senza ostacoli?
Adesso potevo farlo; e corsi, corsi da un quartiere all'altro, lasciando che la mia mente vagasse insieme alla mia automobile; corsi senza mai osservare davvero quelle strade, una volta piene di vita e adesso ridotte a uno sfondo immobile. Poteva esserci qualcun altro, in giro, qualcuno intento come me a cercare una spiegazione? Avrei mai potuto incrociare un'altra macchina? Mi sarei accorto se l'avessi incrociata?

Ma quella folle corsa, quella libertà a lungo sognata, mi fece nascere altri pensieri: ritrovarsi da solo al mondo non aveva anche dei vantaggi, in fondo? Poter fare di sé e della propria vita qualsiasi cosa, senza nulla e nessuno a cui rendere conto! Senza impegni, senza obblighi di alcun tipo: ero libero di andare dove volevo e quando volevo, e di fare solo quello che desideravo; libero di entrare in ogni casa, in ogni negozio, di prendere ciò che più mi piaceva, libri, dischi, automobili, barche, persino aerei; di abitare nei posti più lussuosi, di fronte ai panorami più stupendi, senza dover derubare nessuno, senza fare delle scelte, senza nulla di cui preoccuparmi. Quanti avrebbero voluto essere al mio posto, con un mondo intero a disposizione e la libertà più totale che si possa immaginare?
Perché farsi delle domande, allora? Perché farsi travolgere dall'angoscia?

Ma era altrettanto vero che non era rimasto nessuno con cui parlare; nessuno su cui contare nei momenti di difficoltà; nessuno che potesse, anche solo con la sua presenza, essere di aiuto o di conforto.
Nessuno a curare le malattie; nessuno a cucinare qualcosa di diverso da una serie infinita di cibi in scatola, tutti ugualmente conservati e privi di sapore; nessuno per farmi comprendere veramente le meraviglie che avrei potuto vedere, quei panorami, quei monumenti che avrei potuto visitare in qualsiasi momento.
E nessuno, soprattutto, con cui dividere quel mondo e tutta quella libertà di cui avrei dovuto godere: nessuno da amare, nessuno a cui trasmettere qualcosa di mio. Quel mondo, che aveva tutto da offrirmi, sarebbe finito con me.
Io non ero nulla: da solo, non valevo niente; da solo, non potevo neanche vivere una vita degna di questo nome. Anche se, con ogni probabilità, era quello che avrei dovuto fare.

Fu solo un'ora o due più tardi che finalmente smisi di correre e cominciai a guardarmi intorno, sperando di vedere qualcosa, qualunque cosa che non fosse in ordine e per cui valesse la pena di fermarsi.
Era ormai pomeriggio inoltrato, e avevo percorso più di cento chilometri; ricordavo vagamente di avere attraversato il centro storico, di avere raggiunto i quartieri a nord, e poi di essere tornato verso la periferia sud, dopo un lungo giro sulle tangenziali intorno alla città: in quel momento ne stavo uscendo, e intorno a me non rimanevano che pochi villini, immersi in un paesaggio dolce, ma non meno silenzioso di quello urbano.

Accostai da un lato, e cercai di formulare un piano: vagare senza una meta non sarebbe servito a nulla. Ma dove sarei potuto andare? Forse in un'altra città, se non in un'altra nazione, avrei trovato dei superstiti, o almeno qualcosa che avrebbe potuto finalmente far luce sul mistero.

Mentre pensavo, un altro stormo di uccelli passò sopra di me, sbucando da sopra un boschetto che si intravedeva in fondo alla strada: e, lentamente, si allontanò nella solita direzione.
Mi chiesi se non ci fosse qualcosa, a sud, da cui gli uccelli fuggivano; oppure qualcosa, a nord, che li attirava. Ma era pur vero che quella non era la prima volta che vedevo stormi di uccelli sorvolare la città, e forse il loro comportamento non aveva niente di insolito; magari, se non mi fossi trovato in quella situazione, non li avrei neanche notati.
Nel dubbio, mi chiesi anche se non dovessi dirigermi verso sud, a cercare la cosa dalla quale fuggivano. O sarebbe stato meglio tornare in città, riprendendo da capo le mie ricerche?
Esitai; da una parte non c'era alcuna fretta, visto che il tempo per esplorare il mondo intero non mi mancava, dall'altra non mi sentivo particolarmente attratto dall'idea di ricominciare a sfondare porte ed esplorare appartamenti e negozi in perfetto ordine.

Poi mi venne in mente che forse, in casa dei miei genitori, avrei potuto trovare una traccia, un messaggio. Non era possibile, non potevo crederlo, che anche loro se ne fossero andati senza farmi sapere nulla. Non era possibile che mi avessero dimenticato del tutto. Non loro. Gli altri parenti, gli amici, i colleghi: ma non loro!
Così decisi di tornare indietro: voltai la macchina e con più calma, stavolta, ripercorsi le strade della città, silenziose, immobili, ordinate in modo innaturale; un ordine che sembrava potesse crollare da un momento all'altro, al primo soffio di vento, lasciando che i grattacieli, i monumenti, i ponti si abbattessero al suolo.

In un silenzio assoluto percorsi la tangenziale sud, e attraversai il grande quartiere residenziale che delimitava la fascia industriale. C'erano pochi negozi, e avevo l'impressione che quelli aperti fossero ancora meno numerosi.
Poi le ville, gradatamente, lasciarono il posto alle palazzine di tre o quattro piani; e come già nel mio quartiere, vidi molte finestre aperte, e molte altre chiuse: come sempre, almeno in apparenza.
Ma ovviamente, non c'era nessuno a guardarmi da dietro quelle finestre, aperte o chiuse che fossero.

Raggiunsi Viale della Repubblica, la grande strada che attraversava la fascia industriale e conduceva ai quartieri che delimitavano il centro storico. Lentamente, su entrambi i lati del viale, vidi passare un capannone dopo l'altro, qualche enorme palazzo di uffici, molte fabbriche, alcuni magazzini.
Industrie tessili, meccaniche, alimentari; concessionarie di automobili, software house, rivenditori di materiale elettrico; e poi ancora mobilifici, distributori di benzina, enormi negozi di abbigliamento. Più defilate, alcune industrie chimiche, famose per i fumi pestilenziali che appestavano mezza città: ma in quel momento, per quanto riuscivo a vedere, nessuna ciminiera era in funzione. Tutto sembrava immobile, ogni attività sospesa, ogni fabbrica silenziosa come una chiesa abbandonata.

La strada si fece più stretta; in pochi minuti raggiunsi i crocevia che introducevano nelle zone più popolose della città. Io abitavo da quelle parti, e così pure i miei genitori, anche se a molti isolati di distanza; aggirai il centro storico e, seguendo strade che conoscevo a memoria, raggiunsi ben presto il loro quartiere.

Il sole calava. La luce era diversa, adesso, e le ombre si allungavano: le strade, deserte e silenziose, assumevano lentamente un colore grigiastro che le rendeva ancora più spettrali.
Perfino il silenzio sembrò farsi ancora più cupo, mentre attraversavo un incrocio dopo l'altro, incurante dei semafori, delle strisce pedonali, dei limiti di velocità. Avrei trovato quanto cercavo? O sarei andato incontro all'ennesima delusione? E che altro avrei potuto fare, in questo caso?
Domande, domande senza risposta: ma alla fine, dopo aver passato un cinema, e poi un piccolo centro commerciale, parcheggiai in quello che una volta era stato uno dei viali più trafficati della zona. La casa dei miei genitori si trovava pochi metri più avanti, al secondo piano di un'elegante palazzina che si affacciava sul viale.

Scendendo dalla macchina ebbi l'impressione, per la prima volta da quella mattina, che ci fosse qualcosa di insolito, nelle strade deserte che mi circondavano. Mi fermai sul marciapiede, guardandomi intorno con attenzione: cosa poteva essere? Certo, il viale era deserto e immerso nel silenzio più assoluto, ma in questo, ormai, non c'era più nulla di strano.

Tornai a guardare la mia macchina, e con un sobbalzo capii all'improvviso. Avevo parcheggiato! Cosa sempre impossibile, in quel viale, a quell'ora, e con un centro commerciale poco distante. Ogni volta che mi recavo a trovare i miei genitori dovevo parcheggiare a qualche isolato di distanza; e negli ultimi anni avevo incontrato difficoltà tali che talvolta preferivo fare tutta la strada a piedi.

Ecco cosa mi aveva colpito: le macchine parcheggiate erano molto meno numerose del solito. E, dopo aver esplorato con lo sguardo l'intero viale, mi resi conto che erano più o meno quante ce ne sarebbero state durante la notte, con i negozi e gli uffici ormai chiusi.
Un indizio, finalmente? Forse questo provava che qualsiasi cosa fosse successa, si era verificata di notte, e non verso le nove di mattina, come avevo pensato in un primo momento.
E quindi i negozi erano stati aperti apposta, forse al solo scopo di essere riordinati, e tutti quelli che erano scomparsi avevano avuto, con ogni probabilità, diverse ore di tempo per sistemare le loro abitazioni.

Non era affatto la soluzione del problema, e le domande più importanti continuavano a rimanere senza risposta; tuttavia, avere scoperto qualcosa proprio quando stavo perdendo ogni speranza di fare qualche passo verso la soluzione del mistero, mi diede un po' di convinzione in più: forse c'era modo di trovare degli indizi, dopotutto; forse a poco a poco avrei trovato le risposte che cercavo. E venire a casa dei miei genitori era stata una buona idea, qualsiasi cosa avessi trovato nel loro appartamento.

Mi affrettai verso il loro portone; ne avevo le chiavi, e potei entrare senza difficoltà.
Ma poi la vista dell'androne, buio e silenzioso, e delle scale, a malapena illuminate dal sole al tramonto, mi gettò di nuovo nello sconforto; esitai a lungo prima di salire di corsa al secondo piano, cercando di non pensare a quello che avrei potuto trovare in casa.
O non trovare.

E vincendo ogni ulteriore esitazione, mi affrettai ad aprire la porta dell'appartamento: meglio sapere subito che restare a lungo nell'incertezza, come avevo sempre fatto in tutta la mia vita. Ma già alla prima occhiata capii che non c'era nulla da fare.
Era davvero la casa dei miei genitori? Lo era, senza dubbio; il grande soggiorno all'americana, la pianta subito a destra dell'ingresso, la libreria in camera da letto, la veranda ricca di fiori e di rampicanti. Ma anche lì, come in ogni altro posto, non vi era alcun segno di vita: come sempre, tutto era perfettamente ordinato e silenzioso. Il letto immacolato, la cucina come nuova, il bagno pulito. I mobili, lucidi e spolverati. E così le piante e i soprammobili.

Cercai invano in ogni angolo; non trovai nessun biglietto, nulla che assomigliasse a un messaggio. La casa era talmente in ordine che sembrava non fosse mai stata abitata: eppure gli armadi erano pieni di vestiti, i libri non mancavano, e la dispensa non era certo vuota. E quindi qualcuno doveva averci abitato; qualcuno doveva aver posseduto tutti quegli oggetti; e quegli oggetti appartenevano, senza il minimo dubbio, ai miei genitori. Ma, come tutti gli altri, anche loro erano spariti senza lasciare traccia, senza preoccuparsi di nulla, senza neanche avvertirmi.
Ed io ero rimasto indietro.

Persi ogni residua speranza; non avrei mai trovato la soluzione del mistero, e avrei vissuto da solo il resto della mia vita, con un mondo intero, vuoto e silenzioso, a mia disposizione.
Che altro potevo fare? Me ne andai, senza neanche richiudermi la porta alle spalle, e senza cercare di entrare negli appartamenti vicini: ero certo che dovunque fossi andato avrei trovato lo stesso ordine e lo stesso silenzio.
Volevo fuggire; non sapevo dove, ma qualunque posto mi sarebbe sembrato meno tetro di quella palazzina, di quel viale che per un momento mi aveva illuso, mi aveva fatto credere di essere sul punto di trovare una risposta.

Non mi accorsi quasi di essere rientrato in macchina; rimisi in moto e mi allontanai, mentre la luce del giorno si faceva sempre meno intensa.
E mentre lasciavo il viale, senza neanche badare alla direzione che avevo preso, il pensiero di tutte quelle case ordinate e di quei negozi immacolati mi fece venire in mente un dettaglio al quale, fino a quel momento, non avevo fatto caso: c'era ancora una casa in disordine! La mia, ovviamente. E il mio ufficio, allora? In che condizioni sarebbe stato? Era stato riordinato? Da chi?
Io non ero scomparso; e il mio appartamento aveva mantenuto il solito aspetto disordinato: forse era successo lo stesso in tutti i luoghi che frequentavo abitualmente.
Potevo sbagliarmi; ma potevo aver ragione, e dovevo controllare. Probabilmente il mio ufficio era il solo posto dove potevo sperare di trovare qualcosa di diverso, qualcosa che magari non mi sarebbe servita a nulla, ma chissà ... E poi? Cosa avrei fatto dopo?
Cercai di non pensarci, concentrandomi solo sulla strada che dovevo percorrere per raggiungere la ditta in cui lavoravo.

Per arrivarci conveniva attraversare il centro storico: in pochi minuti raggiunsi e oltrepassai il monumento ai caduti, ed entrai nella parte più antica della città.
Che impressione! Le vie del centro, di solito ingorgate fino all'inverosimile, erano sgombre a perdita d'occhio e immerse nella penombra, così strane a vedersi che non potei fare a meno di rallentare e guardarmi intorno, quasi intimorito dal silenzio che sembrava farsi più profondo con l'avvicinarsi del buio; poi i severi palazzi ottocenteschi lasciarono il posto alle chiese barocche e agli edifici rinascimentali, ed io entrai in un settore normalmente chiuso al traffico, proseguendo attraverso vicoli tortuosi che mai avrei immaginato di poter percorrere a bordo di un'automobile.
Intravidi, da qualche parte alla mia sinistra, la grande sagoma dell'Anfiteatro; il sole al tramonto appariva e scompariva fra gli archi, illuminando le cime dei palazzi di una luce rossastra, e tuttavia priva di ogni calore.
Mancava poco, ormai, a Piazza Maggiore, dove sorgeva solitaria la grande Cattedrale; uscii dai vicoli, attraversai il Corso, ed entrai nella zona pedonale.

Nessuno protestò, ovviamente, per il fatto che io vi fossi entrato in macchina, né avrei avuto alcun motivo di fermarmi e proseguire a piedi: eppure, non appena fui entrato nella piazza, l'immensa mole della Cattedrale esercitò su di me tutto il suo fascino; e come sempre mi era accaduto prima di allora, sentii il bisogno di una sosta, per poter contemplare una volta ancora l'imponente facciata, le guglie altissime, gli immensi portali, e le statue che svettavano contro il cielo rosato.

Scesi dalla macchina: la bellezza della Cattedrale, esaltata dall'innaturale silenzio in cui la piazza era immersa, mi attrasse irresistibilmente; vidi che il portale di destra era aperto, e decisi di entrare.
Speravo forse di trovare nella chiesa, all'ombra degli altari e delle tombe, le persone scomparse? Speravo che fossero tutti immersi in preghiera, milioni, o forse miliardi di esseri umani?

Sì, forse lo speravo davvero: ma la Cattedrale era vuota. Vuota e ordinata come il resto del mondo.
I miei passi risuonarono sotto le volte; nella luce sempre più smorta vidi le ombre delle statue che ornavano la navata centrale allungarsi sul pavimento e confondersi tra di loro, in un gioco di chiaroscuri che rendeva l'ambiente particolarmente sinistro.
Perché ero entrato? Di tutti i posti in cui ero stato quello era senza dubbio il meno accogliente; se qualcuno fosse uscito all'improvviso da dietro una colonna sarei certamente fuggito in preda al terrore, e senza voltarmi indietro.

Nonostante tutto, soggiogato dal silenzio che l'eco dei miei passi sembrava quasi amplificare, avanzai fino all'altare maggiore, incapace di pensare, lo sguardo perso negli angoli più oscuri e minacciosi. Forse, se fossi stato in un film, qualcosa di mostruoso ne sarebbe uscito fuori: ma quel mondo, per quanto irreale fosse diventato, non conosceva sorprese; la chiesa rimase silenziosa.

Ma quando fui giunto proprio di fronte all'altare, il mio sguardo si posò sulle alte vetrate dell'abside, popolate da demoni bizzarri e illuminate dagli ultimi raggi del sole.
Fu la suggestione di quel momento? La luce rossastra che sembrava far tremolare le figure? L'impressione che mi stessero guardando?

Qualunque cosa fosse, per un attimo, un attimo brevissimo ma indelebile, quei demoni sulle vetrate diventarono persone: uomini, donne, vecchi, bambini. Che mi guardavano sogghignando da qualche finestra; che ridevano alle mie spalle, prendendosi gioco di me e della mia disperazione.

Urlai. E mentre le volte della Cattedrale rimandavano l'eco delle mie grida, girai su me stesso e vidi lontana, come una luce in fondo a un tunnel, la porta da cui ero entrato.
Non so come, mi ritrovai fuori, nella luce del tramonto. Barcollavo, la mente sconvolta da quella visione inaspettata, le facce sogghignanti davanti ai miei occhi, le risate incessanti a tormentarmi; poi il silenzio e la solitudine ebbero la meglio, e a poco a poco tornai in me, ricordando per quale motivo mi ero ritrovato a passare da quel luogo.
Dovevo raggiungere il mio ufficio. Dovevo tornare in macchina.

E a mano a mano che le ombre della sera si allungavano, ed io mi allontanavo dalla Cattedrale, tornai padrone dei miei nervi: mi resi conto che l'atmosfera della chiesa, così solenne e silenziosa, mi aveva suggestionato, ed io, già provato dall'incubo che stavo vivendo da molte ore, avevo avuto un'allucinazione; forse solo la prima di una lunga serie.

Uscii dalla zona pedonale: ben presto i vicoli sparirono, mentre i palazzi rinascimentali diventavano barocchi, e poi neoclassici; infine le strade si fecero più larghe, ed io spinsi sull'acceleratore, allontanandomi dal centro storico.
Un lungo viale alberato mi condusse nuovamente in periferia, e non tardai a raggiungere il quartiere dove mi recavo ogni giorno a lavorare; oltrepassai alcuni grattacieli, una serie di giardinetti, e finalmente mi arrestai ai piedi di un enorme, moderno palazzo di vetro e cemento, che si alzava maestoso di fronte a un parco pubblico: la "Soft Touch Limited", la ditta per cui lavoravo da quindici anni.

Il sole era tramontato; scesi dalla macchina, chiedendomi se, e quando, le luci stradali si sarebbero accese.
Ma a che sarebbero servite? Il palazzo della "Soft Touch" era buio e silenzioso, come tutti gli edifici circostanti.
O no?
No. Vidi, senza ombra di dubbio, che una luce era accesa al penultimo piano.

Ed era l'unica in tutto il palazzo! Sognavo, forse?
Guardai con più attenzione i palazzi circostanti: effettivamente non c'erano altre finestre illuminate, da nessuna parte. D'altronde, se non era rimasto nessuno ad abitarli, era anche logico che nessuna luce vi fosse accesa; ma se le cose stavano così, perché nel palazzo della "Soft Touch" ...?

Forse qualcuno si trovava al suo interno, in una stanza illuminata?
In preda a un'emozione indescrivibile, fissai a lungo quella finestra; ma, troppo lontano per vedere qualcosa all'interno, non notai nulla che potesse farmi capire cosa stesse succedendo. Né movimenti, né ombre, né rumori.
Ma stava succedendo qualcosa, dopotutto? Perché mai una finestra illuminata doveva indicare la presenza di qualcuno? Esitai, incerto sul da farsi; era come se, ora che stavo per scoprire qualcosa, ne avessi paura. Mi ero già rassegnato? Mi ero adattato alla situazione? Ma quella luce mi attirava irresistibilmente, e inoltre il portone d'ingresso, a pochi metri dal punto in cui mi trovavo, era spalancato. Alla fine mi decisi, ed entrai nel palazzo.

L'atrio, spazioso e accogliente, non sembrava diverso dal solito; anche se, ovviamente, tutto era in ordine, tutto era silenzioso, e non c'erano efficienti segretarie o addetti alle informazioni dietro il bancone dell'ingresso, né portieri o fattorini intenti a entrare o uscire dall'edificio.
Nella penombra intravidi gli ascensori, alcuni dei quali erano fermi al piano terra, con le porte aperte e le luci attenuate, segno di una prolungata inattività.
Senza far caso al fatto che non tutti, stranamente, si trovavano al pianterreno, mi chiesi se ancora una volta fosse il caso di salire a piedi: i piani erano davvero tanti.
Forse ero stanco; o forse cominciavo davvero ad accettare quella situazione, nel bene e nel male: entrai nell'ascensore più vicino, che si illuminò completamente, e premetti il bottone del penultimo piano.

Fu solo mentre salivo, quasi trattenendo il fiato nel timore di un improvviso black-out, che cominciai a riflettere sulla posizione degli ascensori: non avrebbero dovuto trovarsi tutti al piano terra? Era sempre così, ovviamente, quando le persone che lavoravano nel palazzo erano andate via. E non se n'erano forse andati tutti, non solo dalla "Soft Touch", ma dal mondo intero?
Qualcosa non quadrava.
Quanta gente si trovava nell'edificio, in quel momento?
O qualcuno era venuto, nottetempo, e ... e cosa aveva fatto?

Sentivo di essere vicino a capire qualcosa; gli ascensori, la luce al penultimo piano: non poteva non esserci un collegamento con quanto stava accadendo!

L'ascensore si fermò, e prima ancora che la porta fosse completamente aperta, ne ero già uscito, in un lungo corridoio immerso nella penombra.
Come trovare la stanza giusta?
Su entrambi i lati si succedevano le porte degli uffici, inframmezzate da altri corridoi, e da piccole sale d'aspetto: non tardai a trovarne una che si affacciasse sul parco, così come la stanza illuminata, e avesse una finestra aperta.
Mi sporsi, per localizzare la stanza che stavo cercando, e la vidi subito, quasi in fondo al corridoio.
Non mi chiesi neanche chi e perché avesse lasciato una finestra aperta.

Tornai nel corridoio; il silenzio era così profondo che potevo sentire chiaramente i battiti del mio cuore, sempre più veloci a mano a mano che mi avvicinavo alla parete di fondo, enorme, scura: nell'oscurità crescente, sembrava quasi l'imboccatura di un tunnel.
Stavo davvero per scoprire qualcosa?
Non faceva caldo; ma cominciai a sudare. Dov'era, esattamente, la stanza? Ero quasi arrivato in fondo al corridoio ... e poi la trovai: da sotto una porta, la penultima a sinistra, filtrava una luce, appena visibile nella semioscurità, eppure reale e concreta, senza alcun dubbio.
Mi fermai, tremando.
Era la porta del mio ufficio.
Almeno questo era quanto leggevo sulla targhetta d'ottone.

Sbalordito, senza capire - non avevo mai avuto un ufficio al penultimo piano - rimasi a fissare la targhetta, convinto di avere un'altra allucinazione. Ma il mio nome non si muoveva e non cambiava aspetto, finché non dovetti arrendermi all'evidenza: qualcuno, chissà per quale motivo, aveva messo quella targhetta su quella porta. E, ormai ne ero certo, non poteva essere un caso.
Cosa avrei trovato in quella stanza?

D'impulso, spalancai la porta ed entrai in un ufficio elegante e perfettamente ordinato; la luce proveniva da un lampadario antico che troneggiava su un tavolo di mogano, dove un computer portatile, ultimissimo modello, faceva bella mostra di sé.
Una grossa radio si trovava su un tavolino vicino alla finestra; non c'era altro, nella stanza.

Tutto era silenzioso, come sempre.
Ma non tutto era immobile: il computer era acceso, e vi stava girando un programma salvaschermo - un mare in tempesta illuminato dai lampi -, segno palese che da qualche tempo nessuno lo aveva più adoperato. Ma chi, e quando, era venuto a lavorare in quell'ufficio?

Affascinato, attratto da quel mare in tempesta, mi avvicinai: c'era anche una nave, un vecchio galeone, che sembrava sempre sul punto di affondare, ma che ogni volta, all'ultimo momento, riusciva a tirarsi fuori dalle onde. Senza dubbio, era la cosa più viva che avessi visto da quando mi ero svegliato.

Dovevo interrompere il programma salvaschermo; forse, esaminando il computer, avrei capito quando era stato adoperato, e a quale scopo.
Toccai un tasto: la tempesta cessò, lo schermo diventò buio, e poi s'illuminò di nuovo.
E la mia faccia, silenziosa e priva di espressione, vi comparve: ero io, seduto in quello stesso ufficio, a quello stesso tavolo.

Ero sconvolto; e prima che potessi riprendermi, prima che potessi nuovamente allungare la mano verso il computer, la mia faccia parlò. Parlò a lungo, e senza mai sorridere.

"Sapevo che prima o poi saresti venuto.
Questo è davvero il tuo ufficio, anche se tu non puoi ricordarlo; per questo la luce è accesa, perché tu, nei tuoi giri, la notassi, e salissi fin quassù."


Guardavo lo schermo, incapace di qualsiasi movimento, gli eventi di quel giorno terribile ormai dimenticati.

"Perché non ricordi questo ufficio?Perché credi di essere un semplice programmatore, mentre sei un socio, e dei più importanti, della 'Soft Touch Limited'? E' giunto il momento che tu sappia cosa ti sta succedendo, non trovi?"

Mi sarei risposto da solo, alla fine?

"L'esperienza che stai vivendo non è reale; è una simulazione, una specie di sogno indotto dai computer della 'Soft Touch', e dal software che tu stesso hai progettato, in quindici anni di lavoro.
In questi anni la 'Soft Touch', che un tempo era solo una piccola software house, è diventata un'azienda senza uguali al mondo, grazie al tuo lavoro e a quello dei tuoi collaboratori; la tecnologia all'interno di quello che chiamiamo il 'laboratorio' è quanto di più avanzato esista sul nostro pianeta. Adesso tu stai vivendo all'interno di una simulazione: i tuoi ricordi e la tua personalità sono rappresentati fedelmente nella memoria dei computer del 'laboratorio', tranne una piccola parte, cancellata per farti dimenticare qual è veramente il tuo lavoro in questa azienda. Diversamente, avresti capito subito."


Perché?

"Perché non devi capire cosa sta succedendo? Perché è essenziale in vista della scelta che dovrai fare.
Purtroppo, per quanto avanzata sia la nostra tecnologia, abbiamo ancora dei limiti. Siamo riusciti a ricostruire con assoluta precisione ogni particolare della città, e buona parte dei dintorni: avrai notato come tutto sia in ordine, tutto sia perfetto, fin nei minimi particolari, in ogni casa e in ogni negozio ... o almeno in quelli che, scegliendo a caso, abbiamo lasciato aperti.
Ma gli esseri viventi, tutti, sono talmente complessi che avremmo bisogno di quantità di memoria e di tecniche di intelligenza artificiale ancora molto al di là delle nostre possibilità e delle nostre conoscenze.
Per questo non vi sono altri esseri viventi in questo mondo, né mai vi saranno. Le piante non cresceranno e non fioriranno; gli uccelli che vedi passare di tanto di tanto sono semplici immagini che si stagliano sul cielo, come delle nuvole dalla forma strana che vanno sempre nella stessa direzione."


Verso nord ...

"Adesso sai tutto, e puoi uscire dalla simulazione; la stessa simulazione che invece io sto per cominciare. Non è la prima volta, per me: come sarà, stavolta? Com'è stato, per te? A quanto pare, mentre si entra nel cosiddetto mondo virtuale rimane un vago ricordo di quello reale: forse mi vedrò volare, sopra delle torri che si allontaneranno fino a scomparire; o forse, come è successo la prima volta, mi sembrerà di nuotare nell'oceano, sempre più lontano dalla spiaggia. Delle torri, una spiaggia: ovvero la tua - la mia - vera memoria, che viene sostituita da quella artificiale dei nostri computer."

Una foresta di grattacieli ...

"Farò in modo di farti comparire a casa, di notte, mentre dormi: così non ti accorgerai del passaggio. Forse, visto che a te piace dormire la mattina, e qui non ci sarà più nessuno ad aspettarti, terrò bloccata la suoneria della sveglia. In fondo, visto ciò che ti aspetta - che mi aspetta -, non c'è fretta di svegliarsi."

Vidi una mano attraversare lo schermo e avvicinarsi all'interruttore di una piccola telecamera: come potevo vedere io stesso, era attaccata a un angolo del monitor, riprodotta nei minimi dettagli. Come ogni altra cosa.

"E' in fondo al corridoio ... la porta si aprirà quando dirai 'Armageddon'. Ho fatto in modo che per uscire dalla simulazione ti basti toccare te stesso."

La mano raggiunse l'interruttore.

"Buon ritorno. E buona scelta."

Il video si oscurò; il computer si spense.
Ma io non ci feci caso, troppo sconvolto da quello che avevo sentito, e di cui continuavo a non ricordare nulla: per un tempo lunghissimo rimasi in piedi davanti al tavolo, incapace di controllare i miei pensieri, di prendere una decisione qualsiasi.
Era un sogno? E quale scelta avrei dovuto fare? O per caso ero impazzito, ed era la mia mente ad aver creato dal nulla quella spiegazione? Forse avevo perso la ragione nella Cattedrale, o forse ero pazzo fin dalla mattina, e tutto quello che avevo visto esisteva solo nella mia immaginazione.
Non sapevo più cosa fosse reale, e cosa finto; tutto mi appariva giusto, sbagliato, assurdo e concreto nello stesso tempo; se non ero pazzo, lo stavo diventando.

Ma c'era un modo per capire, un modo semplice e sicuro: e il desiderio, mai sopito, di trovare finalmente la spiegazione del mistero, ebbe infine la meglio. Mi strappai da quel tavolo, la mente rivolta all'unico particolare veramente decisivo: il modo per entrare nel 'laboratorio'.

Raggiunsi la parete in fondo al corridoio, ormai quasi immerso nell'oscurità, e vidi chiaramente che quella che da lontano mi era sembrata l'imboccatura di un tunnel era in realtà un'enorme porta metallica, priva di cardini o serrature.
Guardai meglio; al centro della porta vidi una piccola ombra, e mi chinai per esaminarla da vicino: era un microfono.

Chiusi gli occhi; e come fossero le mie ultime parole prima di morire, sussurrai appena: "Armageddon".

Riaprii gli occhi, in tempo per vedere la porta dividersi in due metà, che rientrarono silenziosamente nel muro; e al di là della porta una piccola stanza, illuminata da una tenue luce azzurrina; e un tavolo, al centro della stanza. E una persona che vi era stesa sopra.

Nella stanza non c'era altro; né mobili, né apparecchiature di alcun genere. Le pareti, senza finestre, erano rivestite da qualcosa che sembrava un velluto verde scuro, e che faceva assomigliare quell'ambiente a una piccola grotta.

Era questa la realtà virtuale? Era virtuale anche la stanza?

Ma non vi era alcun dubbio su chi fosse la persona stesa sul tavolo: ero io, in maglietta, pantaloncini e scarpe da tennis. Anche questo abbigliamento era virtuale? O ero vestito così, nel mondo reale?

Mi guardai. E per quanto nulla distinguesse la mia immagine da una statua priva di vita, provai come un brivido. La mia immagine non respirava, non mostrava alcuna espressione, non aveva imperfezioni; ma ero pur sempre io, reale quanto me stesso, quanto sentivo di esserlo in quel momento. E un'emozione sconosciuta crebbe dentro di me, un'emozione che mai, prima di allora, avevo provato ... esistevano i sentimenti, nella memoria di un computer?
Chi era quello vero? Chi di noi due pensava veramente? Allungai una mano ...
"... ti basti toccare te stesso..."

Ma io volevo solo accarezzare quell'immagine, come se dal mio tocco potessi far nascere la vita, e il mondo popolarsi di nuovo.

Invece fu il mondo a svanire. Tutto si piegò improvvisamente su di me ed io caddi, caddi da un'altezza infinita per un tempo ugualmente infinito, in un nulla senza fondo.
Caddi finché non vidi apparire gli stessi grattacieli che avevo lasciato indietro qualche tempo prima; caddi ancora, più giù, fino a raggiungere la pianura che si stendeva ai piedi dei grattacieli ... ma non era una pianura.

Era il tavolo.
Vi ero steso sopra, in maglietta, pantaloncini e scarpe da tennis; la stanza intorno a me era esattamente come l'avevo lasciata, con le sue pareti ricoperte di velluto verde scuro, senza mobili, e priva, almeno in apparenza, di qualsiasi macchinario.
Ma adesso sapevo! C'era un pannello, nel muro alla mia destra, con tutti i controlli delle apparecchiature, sapientemente occultate nelle pareti, che sorvegliavano lo svolgersi dell'esperimento; gli enormi banchi di memoria necessari a ricostruire il mondo virtuale erano tutti nella stanza all'ultimo piano, sopra il 'laboratorio': e alcuni posti, tra cui il mio ufficio e il mio appartamento, erano ripresi da telecamere nascoste che ne trasmettevano l'aspetto direttamente alla simulazione, per arricchirne i dettagli.

Ricordavo tutto. Ero veramente uno dei soci più importanti della "Soft Touch Limited", e quello accanto era proprio il mio ufficio; ricordavo i quindici anni di lavoro che erano stati necessari a me, e ai miei colleghi, per creare la simulazione: e di questa ricordavo ogni particolare.
E che esperienza! Che realismo! Mi alzai dal tavolo, sorridendo, senza più alcun dubbio su cosa fosse reale, e cosa non lo fosse, e raggiunsi la porta, che dall'interno si apriva automaticamente, senza bisogno di comandi vocali.

Ma non appena ebbi messo piede nel corridoio, ora illuminato dalla luce del giorno, crollai per terra, schiacciato da un ricordo improvviso e terribile.
Non so come trovai la forza di non svenire, di rialzarmi e oltrepassare la porta del mio ufficio, dal quale proveniva un familiare ronzio; raggiunsi una saletta d'aspetto, e mi trascinai alla finestra.

E vidi di nuovo.
Vidi i palazzi sventrati, i grattacieli crollati, le rovine fumanti, le strade piene di cadaveri, coperti di insetti, divorati da cani e da topi; dalle finestre degli edifici vicini sporgevano altri cadaveri, l'espressione stravolta come quella che per un attimo, un attimo soltanto, avevo ricordato nella Cattedrale.

Era tornata la sera quando riuscii a staccarmi dalla finestra; ripassai davanti alla porta del mio ufficio, dal quale proveniva il ronzio della radio di cui mi ero servito, per giorni e giorni, per tentare inutilmente di contattare qualcuno ancora in vita.

Non potevo sopportare a lungo quel peso; dovevo scegliere, e scelsi.

Spensi la luce nel mio ufficio; poi mi avvicinai alla porta in fondo al corridoio, che nel frattempo si era richiusa.

"Armageddon".


Hello darkness, my old friend,
I've come to talk with you again,
Because a vision softly creeping,
Left its seeds while I was sleeping,
And the vision that was planted in my brain
Still remains
Within the sound of silence.

(Oscurità, mia vecchia amica,
son venuto di nuovo a parlarti:
una visione, che soffice strisciava,
ha lasciato i suoi semi mentre dormivo,
e dopo essere stata piantata nella mia mente
rimane ancora,
nel suono del silenzio)

(Paul Simon)



Scrivere questo racconto (tecnicamente "racconto lungo" o "novelette") è stato molto difficile: niente dialoghi, niente azione, una soluzione che tira in ballo la realtà virtuale, argomento ormai trito e ritrito. Ho pensato che un doppio colpo di scena finale potesse rendere più sopportabili tutti questi problemi, ma dubito di esserci veramente riuscito. Stranamente, i miei pochi lettori si dividono tra "entusiasti" e "detrattori", senza vie di mezzo: ho centrato il mio obiettivo? Oppure avrei fatto meglio a cercare un altro finale?