2, Place Lamartine fu apprezzato al punto che ci fu chi mi suggerì di scriverne un seguito; da parte mia avevo già pensato che le multinazionali, che nel primo racconto si erano letteralmente viste sparire l'agognato Van Gogh da sotto il naso, avrebbero cercato di farla pagare al protagonista. Nacque così questo racconto, che inviai al premio Omelas, e nello stesso tempo mi venne un'idea che in futuro dovrebbe portarmi a scrivere degli ulteriori seguiti, per un totale di cinque storie brevi centrate sul "cristallo".


43, PLAKARAM ROAD (Heinz)

La prima sensazione è la nausea.
Poi subentra il mal di testa, più forte del solito; le tempie mi pulsano dolorosamente, ed io mi ritrovo ad annaspare nel buio che mi circonda, senza altro desiderio che quello di far cessare il dolore e potermi finalmente riposare.
Non appena le fitte si attenuano, i sensi tornano a poco a poco.
Il primo è l'udito, e la prima cosa che percepisco è una specie di litania, monotona ma rilassante; poi avverto nuovamente gli odori, forti, numerosi, e non sempre gradevoli. C'è qualcosa di salmastro, e devono esserci anche delle persone, molte persone, intorno a me.
Il tatto mi rivela che sono disteso su una roccia umida e fredda, probabilmente uno scoglio. E infine, lentamente, il buio lascia il posto a un'enorme distesa grigia, venata di sfumature verdi e azzurrine.
Mi rilasso; la nausea svanisce, e sono nuovamente in grado di pensare. Dove mi trovo?
Con una smorfia cerco di mettermi seduto; sì, quello sotto di me è uno scoglio, e quello davanti a me è l'oceano. Lontano, alla mia sinistra, il sole sta per sorgere.
Ma non sono solo.
Una folla sterminata di persone è radunata intorno a me, su una spiaggia rocciosa. Ma, stranamente, nessuno mi guarda: nessuno, per fortuna, ha notato un uomo di mezza età comparire improvvisamente dal nulla.
Tutti guardano verso il mare, migliaia di uomini, donne, vecchi e bambini; qualcuno ha in mano una macchina fotografica, altri una telecamera. C'è chi sembra cantare all'oceano una nenia lenta e monotona, quella stessa litania che ho udito appena tornato in me.
Se non fosse per questi canti, il silenzio sarebbe rotto solo dal rumore della risacca e dalle strida di qualche gabbiano mattutino ... dove sono? Dove mi sono trasportato?

Nello stesso istante in cui comincio a ricordare gli avvenimenti di poco prima, la mia fuga notturna ad Amsterdam, l'inseguimento lungo i canali, e infine la mia decisione di trasportarmi in India, un raggio di sole spunta dalla superficie grigiastra dell'oceano.
E' un faro che illumina la folla sterminata, e sembra quasi accenderla.
Un applauso si leva, seguito dagli scatti delle macchine fotografiche; tutti si alzano in piedi, tra grida di gioia e sorrisi raggianti, mentre gli uomini che cantano -dei sacerdoti indù, adesso li riconosco- continuano nel loro saluto al sole nascente.
Ricordo tutto, finalmente. Ma perché mi trovo qui? Non dovrei essere a Madras? Che ci faccio a Cape Comorin, estremità meridionale dell'India?
Mi alzo in piedi, una mano ancora serrata sul cristallo; e mentre lo ripongo nella tasca interna della giacca, mi lascio sfuggire un'esclamazione di disappunto ... ho commesso un errore. Sì, volevo trasportarmi a Madras, ma all'ultimo momento ho pensato che, anche in piena notte, apparire in una metropoli di quattro milioni di abitanti avrebbe potuto attirare l'attenzione; meglio arrivare in un posto isolato, allora ... così mi è venuto in mente Cape Comorin, tanto deserto la notte quanto affollato all'alba: ad Amsterdam era mezzanotte e non ho pensato alle sei ore di fuso orario che mi separavano dall'India.
Con un sospiro, mi confondo con la folla di turisti che sta abbandonando la spiaggia; quasi subito mi si avvicina un ragazzino dall’aria sveglia che deve aver notato il mio aspetto trasandato e la mia aria smarrita.
“Hotel, sir?”
Non credo sia il caso di rimanere a Cape Comorin; ma il ragazzino può comunque essermi di aiuto. Prima cosa, cambiare dei soldi: porto sempre con me parecchi dollari, per fronteggiare evenienze come quella in cui mi trovo.
“Change money?”
“Yes, sir.”
Lo seguo; misti a decine di turisti di ogni nazionalità guadagniamo la strada che fiancheggia la spiaggia, e poi proseguiamo per le vie larghe e ancora deserte del piccolo paese in riva all’oceano.
Raggiungiamo un tendone, non lontano da un'autorimessa; alcune persone, forse operai in qualche fabbrica del posto, sono sedute intorno a delle panche, consumando un pasto frugale sulle foglie di banana che spesso, da queste parti, si usano al posto dei piatti.
Il ragazzino mi porta da un uomo, probabilmente il padre, che sta preparando delle focacce sopra un fornello a gas; gli parla brevemente, e in pochi istanti i miei dollari cambiano di mano. Lascio qualche rupia al ragazzino e mi faccio portare ad una delle panche, dove mangio volentieri una focaccia impregnata del succo di qualche frutto esotico.
Sperando che il mio stomaco regga, ora che la nausea è passata, cerco di raccogliere le idee.
"Hotel, sir?"
Sorrido. Il ragazzino ha deciso di sfruttare a fondo la mia generosità, e chi sono io per deluderlo?
Ma non è un hotel di cui ho bisogno; soppesando qualche moneta con aria noncurante faccio la mia richiesta.
"Bus station. Madras."
"Maan-tras?"
"Mad ... Chennai(1). Bus."
"Ha! Chennai. Come, sir."
Un risciò a motore appare, come per magia, davanti al tendone; il fracasso provocato dallo strano trabiccolo spezza bruscamente il silenzio del mattino. Il conducente, ancora assonnato, potrebbe essere lo zio del ragazzino; o magari è suo fratello maggiore.
La trattativa è breve, le mance abbondanti. Saluto il mio giovane compagno, felice di essersi guadagnato la giornata con poca fatica, e salgo nel risciò; tossendo e sputando, il piccolo veicolo riparte e dopo pochi minuti e molti sobbalzi mi ritrovo in una piazza già affollata di carretti, bufali, mendicanti, poliziotti e vacche sonnolente. Un impiegato mattiniero, forse un bancario, che riconosco dagli abiti decenti e dall'aria dignitosa, si aggira nella piazza alla ricerca di informazioni; in un angolo, un gruppo di donne dai vestiti sgargianti chiacchiera ad alta voce.

In quanto a me, avere le idee chiare sulla mia destinazione non mi è di grande aiuto: passa una buona mezz'ora prima che riesca a capire che non c'è modo di raggiungere Madras in autobus, e che al massimo posso arrivare a Trichi prima di sera; da lì, almeno, potrò prendere un ‘express train’, il che significa altre sei, forse otto ore di viaggio nel caldo soffocante dei tropici.
Passa un'altra mezz'ora prima che si presenti qualcuno a fare i biglietti per Trichi; e un'altra ora prima che un ‘deluxe bus’, cigolando sotto il peso dei bagagli e delle troppe persone stipate al suo interno, lasci faticosamente la piazza con me a bordo, schiacciato contro un finestrino dai quattro indiani che occupano i due sedili adiacenti.

Ma infine il vecchio autobus prende velocità, esce dal paese, e si allontana sulla vecchia strada che punta verso l'interno. L'oceano svanisce alle mie spalle, i passeggeri scendono a poco a poco, ed io finisco per assopirmi, cullato dal caldo, dalle voci che si inseguono intorno a me, e perfino dai sobbalzi che finiscono per conciliarmi quel sonno di cui ho un grande bisogno.
E' solo al mio risveglio, diverse ore dopo, che torno a meditare sulla mia situazione, su quello che sono venuto a fare. L'autobus è fermo, in una delle molte soste previste -o impreviste?- prima dell'arrivo a Trichi, ed è quasi vuoto; tutti i passeggeri sono scesi a rifocillarsi, tranne una vecchia signora che siede proprio dietro al conducente e che sembra addormentata.
Mi guardo intorno: fuori dell'autobus, scalzi ma divertiti, alcuni ragazzini mi osservano da lontano. Non appena si accorgono che mi sono svegliato, i più intraprendenti si fanno sotto al finestrino, gesticolando e cercando di attirare la mia attenzione in ogni modo.
"Pen, one pen, please."
Purtroppo il mio non è un viaggio di piacere; non ho penne, né caramelle da dar loro. Eppure, guardando fuori del finestrino, mi chiedo se le mie preoccupazioni, gli scrupoli che mi hanno condotto nell'India del Sud, siano giustificati. C'è forse qualcuno, nella vasta umanità che mi circonda, che sappia del cristallo? E se anche ci fosse, gli importerebbe qualcosa?
Bambini scalzi, donne che cercano di vendere improbabili souvenir o colorati rotoli di seta sulle loro bancarelle; uomini, pure scalzi, che si aggirano spingendo carretti o trasportando enormi sacchi; e un frastuono continuo, ora più intenso, ora più attenuato, interrotto di tanto in tanto da qualche rumore più forte, da un colpo di clacson, da un grido acuto o da un pianto disperato.
E qui mi trovo io, a fare l'eroe in mezzo a questa umanità così varia e indifferente; io, anonimo insegnante di lingue straniere in un liceo di Utrecht. Perché io? Cosa ho di speciale, di diverso rispetto a questi uomini, queste donne, questi bambini che non cessano di picchiare sul finestrino nonostante io non abbia nulla da regalargli?
Eppure tutti direbbero che io ho davvero qualcosa di speciale: io e altre due persone, la donna che sto andando a trovare a Madras e un impiegato delle poste di Montevideo; noi tre, uniche persone al mondo capaci di percepire la misteriosa energia racchiusa nel cristallo e di utilizzarla per spostarci nello spazio e nel tempo a nostro piacimento. Potrebbero anche essercene delle altre; ma finché siamo soltanto noi a poter usare il cristallo con la sola forza del pensiero, a mettere in discussione tutte le teorie scientifiche, a ridare fiato ai sostenitori del paranormale, persino, noi siamo gli eroi: costretti a prendere decisioni difficili, come quella di non lasciare che il cristallo, ritrovato anni fa in un meteorite e considerato la più grande scoperta scientifica di tutti i tempi, venga usato a fini commerciali ... o a non prenderne affatto, come l'impiegato sudamericano che si è tirato fuori da questa storia già diversi mesi fa.
Ed io sono qui, in India, a fare l'eroe, mentre sarei rimasto ben più volentieri ad Utrecht, ad insegnare lingue in attesa della pensione.
Non ho penne o caramelle; ma in tasca ho un po' di monete che do volentieri ai ragazzini in attesa fuori dell'autobus: almeno per un po', i loro problemi si risolveranno. Non così i miei, purtroppo.

Il sole è tramontato quando l'autobus si ferma nel centro di Tiruchchirappalli, detta Trichi; salire nel primo risciò e farmi portare nell'albergo consigliato dal conducente è questione di pochi minuti.
La notte, dopo una cena frugale -non ho voglia di cercare un buon ristorante-, non porta consiglio, ma sogni agitati; due volte mi sveglio di soprassalto, ai rumori che provengono dal corridoio, e due volte mi riaddormento a fatica.
Poco prima del mattino, un sogno più angosciante degli altri viene a turbare ulteriormente il mio sonno: mio padre, morto quando ero bambino e di cui ricordo pochissimo, mi porta con sé a vedere il mare, sulla grande diga dello ZuiderSee. E il mare, stranamente, sommerge tutte le terre al di qua della diga, e le sue onde vi si infrangono contro: gli schizzi mi raggiungono ed io mi sento umido ... infatti sono in un bagno di sudore quando finalmente mi sveglio del tutto.
A colazione medito sul da farsi; sono venuto in India per parlare con Anusha, la donna in grado, come me, di percepire e utilizzare l'energia del cristallo, e convincerla ad aiutarmi nella mia fuga senza fine. Sono stanco; la responsabilità che mi sono preso nel sottrarre il cristallo alla cupidigia delle multinazionali di tutto il mondo è un peso troppo grande da sopportare: malgrado non abbia dubbi sulla mia scelta, questa vita da braccato, questi rischi che corro, persino gli sforzi che faccio nell'usare il cristallo mi hanno spossato. Non ho amici che possano soccorrermi; Anusha è la sola che può capirmi.

Prima di lasciare l’albergo spedisco un telegramma; Anusha vive a Madras, al numero 43 di Plakaram Road, e non ha telefono. Fa una vita difficile: la scoperta delle sue capacità ha attirato su di lei l'interesse degli scienziati ma anche la diffidenza dei familiari; lasciata dal marito, che la considera una specie di strega, vive sola col figlio, un bambino di otto anni, in una casa piuttosto modesta anche per gli standard indiani. Ma della sua amicizia sono sicuro: lei ha sempre considerato le nostre capacità un dono divino e ne va fiera, incurante di ciò che pensano i suoi parenti.
Non so se, e quanto, potrà aiutarmi; ma so di potermi fidare di lei.

E' pomeriggio quando arrivo alla stazione centrale di Madras. Il treno che ho preso a Trichi era relativamente veloce -sette ore per fare 320 chilometri- ma pur sempre caldo e affollato: vampate di calore, odori penetranti, grida e rumori di ogni genere mi accolgono non appena ne scendo, e sono ben lieto di cedere alle insistenze del primo postulante e di farmi condurre nell'albergo che mi consiglia, purché centrale e ‘very good’.
In un taxi, quasi in trance, non noto neanche le vie di Madras, l'odore dell'oceano, i colori dei tropici, i suoni che provengono dalle strade, dai musicisti improvvisati e dagli incantatori di serpenti, i giapponesi che vagano tra monumenti e negozi di souvenir, i molti europei sudati e circondati da ragazzini scalzi e vocianti, le vacche, i cani, i bufali, i dromedari, persino, che si mischiano con automobili, risciò, biciclette, camion, moto e carri di ogni tipo e dimensione.
Tutto passa davanti ai miei occhi stanchi, e solo la vista dell'albergo, un edificio bianco e non privo di eleganza con un piccolo giardino alberato, riesce a scuotermi dal mio torpore.
L'albergo si chiama "Calicut", e non risulta neanche tanto economico; ma per fortuna vale il prezzo che pago, e una doccia appena tiepida, in una camera di bell'aspetto e rinfrescata da ben due ventilatori a pale, mi rimette in sesto.
Steso sul letto, sormontato da un pretenzioso baldacchino al quale è fissata un'enorme zanzariera, mi riposo; la finestra della camera dà sul giardino e, nonostante sia aperta, i rumori provenienti dalla strada mi giungono attutiti. Sarebbe bello poter dormire, dormire a lungo e poi uscire nel fresco della sera, trovare un ristorante in riva all'oceano in cui mangiare gamberi a sazietà, sorseggiare una birra e magari recarsi in un teatro del centro a vedere uno spettacolo di Katakali(2).
Sarebbe bello godersi un tramonto tropicale, vegliare la notte in attesa di veder spuntare dall'oceano quelle stelle invisibili dalla vecchia, nebbiosa Europa; sarebbe bello girare nei mercati, contrattare gli acquisti, recarsi nei dintorni ad ammirare le città-tempio, Mahabalipuram dalle imponenti sculture e Kanchipuram la città d'oro.
Invece sono circa le cinque del pomeriggio quando mi alzo, mi rivesto, e lascio la mia camera: Anusha mi starà già aspettando e la vita del turista è solo un ricordo della mia giovinezza, di anni lontani in cui l'India era un paese da sogno, i Beatles il mio complesso preferito e le multinazionali non rappresentavano un pericolo; a quei tempi era difficile arricchirsi fino al punto di poter offrire montagne d'oro a pittori venuti dal passato, mettendo in crisi la mia coscienza e finendo per spingermi su una strada senza ritorno.
Scendo nella hall del "Calicut": il portiere, in un angolo, sta conversando tranquillamente con un inserviente, forse in attesa che qualcuno venga ad ordinare il tè pomeridiano; quel tè che tra poco, probabilmente, sarà Anusha ad offrirmi.
Dove si trova, esattamente, Plakaram Road? Studio una cartina di Madras, appesa al muro, e non tardo a rintracciarla: è nella zona sud della città, a un quarto d'ora di macchina, forse meno, dall’albergo; sembra una strada lunga e importante, e i conducenti di taxi o di risciò dovrebbero poterla trovare senza difficoltà.

Sto ancora studiando la cartina di Madras quando qualcuno mi chiama.
"Sir! Sir! One letter!"
Mi giro di scatto; con mia enorme sorpresa vedo il portiere farmi dei cenni con una mano, mentre con l'altra sventola una piccola busta.
La prendo; sopra c'è scritto, in stampatello "professor Hermann Van Laen, stanza 19". E' indiscutibile che la lettera sia davvero per me: ma chi, e quando, può aver saputo della mia presenza nell'albergo?
Senza pensarci su due volte, apro la busta; contiene un solo foglietto, piegato in due, sul quale leggo una sola frase, pure scritta in stampatello: "Nascondi il cristallo in un luogo sicuro".
Ma chi...? Come?
"Chi ha portato questa lettera? Who brought it?"
Il portiere, forse spaventato dal tono brusco con cui lo sto apostrofando, balbetta una scusa.
"Don’t know ... found letter on desk ... sorry, sir ..."
"Non ha proprio visto chi l'ha portata? Did you see anyone?"
"No ... I'm very sorry ..."
Continuo a rigirare la lettera fra le mani; nonostante lo stampatello, la calligrafia mi sembra familiare. Eppure non la riconosco.
Che devo fare? Questo piccolo incidente aumenta le mie preoccupazioni; è chiaro che qualcuno sa del mio arrivo a Madras, e non mi spiego come mai non mi abbiano già aggredito, visto che sanno anche in che stanza alloggio.
Il portiere continua a guardarmi perplesso; forse teme di aver combinato un guaio.
"E' tutto a posto, allright. Ok. Thanks."
Una piccola mancia lo rassicura più di ogni mia parola. Ma io non mi sento affatto sicuro; tenendo in mano il foglietto torno nella mia stanza e mi siedo sul letto, a pensare.
Chi può sapere della mia presenza in questo albergo? Neanche Anusha sa dove alloggio, e sono certo che nessuno mi ha seguito; d'altra parte è anche vero che l'idea di nascondere il cristallo in un luogo sicuro non sembra assurda, anzi. Che il messaggio sia di qualche amico, dopotutto? Ma allora, perché ricorrere a questi sotterfugi?
Ma il tempo stringe; nascondere il cristallo, sì: ma dove? Nella stanza, magari? Afferro il lume che fa bella mostra di sé sul comodino: un'elaborata scultura che raffigura Ganesh, il dio dalla testa di elefante, con la lampadina innestata sulla proboscide. Il suo interno è cavo, probabilmente.
Ma i dubbi continuano a tormentarmi: se il biglietto fosse una trappola? Se ci fosse qualcuno in attesa, pronto a perquisire la stanza in mia assenza?
Oltretutto il lume sembra un nascondiglio banale, né riesco a immaginarne di veramente sicuri. Le pale dei ventilatori, lo sciacquone in bagno, persino il pomo del letto, ammesso che riesca a svitarlo: tutti posti scontati, che verrebbero setacciati in pochi minuti.
Sto quasi per decidere di portarmi dietro il cristallo, dopotutto, quando un'intuizione improvvisa mi attraversa la mente: vedere un grosso portacenere, sul tavolino sotto la finestra, e ripensare ad uno dei miei racconti preferiti ("La lettera rubata", naturalmente!) è questione di un istante. Il cristallo, largo, tondo e quasi piatto, si adatta perfettamente al fondo del portacenere e, una volta infilato al suo interno, non si nota più, neanche a uno sguardo attento.
Sorrido; mi sembra di avere avuto un'idea geniale, un'idea di quelle che si leggono solo nei libri gialli o nei migliori romanzi di avventura. Non dubito più di aver fatto la cosa giusta: e finalmente posso lasciare l’albergo, salutando cordialmente il portiere ancora perplesso e permettendomi di contrattare un po' col conducente del primo risciò che si ferma di fronte al "Calicut": per sole cinque rupie, contro le dieci inizialmente proposte, costui mi porta in Plakaram Road, una via larga e circondata da case basse, da muri screpolati e da molte, piccole botteghe su entrambi i lati.
Pago il conducente; dagli sguardi stupiti dei passanti e dalla mancanza di postulanti capisco che la zona in cui mi trovo non è molto frequentata dai turisti, o comunque non dagli europei. Mi do un'aria indifferente e cammino fino al numero 43: più che una porta, un'apertura in un muro imbiancato di recente, fra una bottega che vende mobili usati -molto usati- e una piccola sartoria dove due giovani donne stanno cucendo degli abiti dall'aria modesta.
Non alzano neanche la testa a guardarmi, pur consapevoli della mia presenza; ogni istante di lavoro, a Madras, è prezioso.
Entro nell'apertura che rappresenta il numero 43, e mi ritrovo in un cortile assolato, deserto, dove un vecchio carretto ormai inutilizzabile giace contro il muro alla mia sinistra; il cortile ha una forma irregolare, ricca di angoli bui e di porticine che immagino conducano nei retrobottega dei negozi o in qualche scantinato. Una porta più grande, alla mia destra, mi indica la casa di Anusha.
"E' permesso?", chiedo ad alta voce, nonostante la porta sia aperta.
Nessuno risponde; entro, e mi ritrovo in una specie di soggiorno, ingombro di sedie e di credenze e privo di finestre; due porte alla mia sinistra conducono probabilmente nelle altre camere. Una scala, in fondo alla stanza, scende verso una cantina.
Non c’è nessuno. Possibile che il mio telegramma non sia arrivato?
“Anusha!”, chiamo.
Ma nessuno risponde. Sto per bussare alle altre porte quando intravedo un’ombra alle mie spalle.
“An…”
Faccio appena in tempo a scorgere dei capelli a spazzola, che non sono certo quelli di Anusha: poi qualcosa mi colpisce ed io sprofondo nel buio.

Di nuovo nausea e mal di testa. Quanto tempo è passato? Torno lentamente a uno stato di coscienza accettabile, e mi rendo conto di essere seduto su una sedia, le mani legate dietro la spalliera.
Ma il primo pensiero è per Anusha, per la donna in cui ho riposto una fiducia che non meritava: più del dolore alla testa, è il pensiero del suo tradimento a farmi star male.
Apro gli occhi. Sono in uno scantinato ingombro di vecchi mobili, illuminato da una piccola finestra che immagino dia sul cortile; due uomini sono in piedi nella stanza. Uno di loro, appoggiato alla porta, coi capelli a spazzola e l'aria indifferente, dev'essere il tipo che mi ha colpito; l'altro, in giacca e cravatta, mi fissa con l'aria del gatto che ha appena preso il topo, e sorride con un'espressione di sottile perfidia non appena mi vede alzare la testa.
"Ci si rivede, professor Van Laen."
Scuoto la testa; la vista mi si schiarisce, e lo riconosco a mia volta.
"Stanton. Alan Stanton, temo."
L'ho visto per la prima volta quando si presentò come ‘il numero 3’ della sua azienda, una famosa software house americana, per offrire montagne d'oro a un Van Gogh che io avevo portato nella nostra epoca; mi era stato subito odioso, e da allora l'ho rivisto altre due volte, in circostanze sempre meno piacevoli.
"Sono contento, professore. Vedo che si ricorda di me."
Stanton parla fiammingo perfettamente, anche se ha un marcato accento americano che in altre circostanze lo renderebbe ridicolo.
"Di sicuro lei ricorda anche dove ha lasciato il cristallo."
Non potrò mai ringraziare abbastanza lo sconosciuto del messaggio.
"No, non mi ricordo."
Vediamo. Tanti anni fa sono stato scout, e forse posso liberarmi delle corde, se ho abbastanza tempo. Anche se non vedo come potrei sopraffare Stanton e il suo gorilla.
"Professore, non mi deluda un'altra volta."
"E' lei che delude me, Stanton."
"Lei ha già fatto molti sbagli, professore. Ha riportato indietro Van Gogh, facendo sfumare un affare colossale, un affare ben più importante di quanto potesse immaginare."
"E che altro?"
"Si è rifiutato di darci il cristallo."
"Tanto non riuscireste ad usarlo."
"Lo so; lei non ci aiuterebbe, e neanche la sua amica indiana, qualunque cosa lei ne pensi ..."
Anusha. Un'ombra cala su di me.
"Le darò una buona notizia, professore. E lei saprà ricambiarci, vero?"
Sento che le corde cominciano ad allentarsi; ma sono solo all'inizio.
"La sua amica non lo avrebbe mai tradito. Eravamo sicuri che lei sarebbe venuto a trovarla, presto o tardi, e la sorvegliavamo da molte settimane; quando stamattina è arrivato il suo telegramma, abbiamo dovuto ‘prelevare’ suo figlio per convincerla a collaborare …"
La collera mi travolge. Se fossi libero, salterei addosso allo spregevole individuo, incurante delle conseguenze.
"Che avete fatto di lei?"
"Non si preoccupi, professore. E’ su un taxi, adesso, e sta andando da sua sorella con molti ringraziamenti da parte nostra, visto che non ha voluto soldi. Il bambino è ancora qui, in camera da letto, almeno finché non avremo il cristallo."
La rabbia per quanto sta accadendo mi impedisce di provare sollievo per quanto ho saputo di Anusha; non sbagliavo a volermi fidare di lei, anche se avrei dovuto essere più prudente.
"Io non le darò il cristallo."
Stanton incrocia le braccia e comincia a camminare per la stanza.
"Ne è sicuro?"
"Le ho già detto che comunque non potrete usarlo."
"Lei non sa che l'altro suo amico, il tipo di Montevideo, ha accettato di collaborare."
Lo temevo.
"Non ci manca che il cristallo. Sia ragionevole."
Le corde si allentano, senza dubbio. Ci vorrà ancora del tempo, ma credo di potercela fare.
"No, vedo che non vuole ragionare. Male, professore! Sa che Mozart va molto di moda, di questi tempi? Quando sarà di nuovo tra noi lo pagheremo molto bene per avere in esclusiva i diritti delle sue nuove opere."
"Ieri Van Gogh, oggi Mozart. La sua azienda ama così tanto l'arte?"
"Immensamente. E soprattutto ci guadagna moltissimo rivendendo i diritti ad altri appassionati. Vuol sapere quanto ci abbiamo ricavato?"
"Avete già rivenduto i diritti delle nuove opere di Mozart?"
Stento a crederlo.
"Abbiamo anche reinvestito quanto abbiamo guadagnato, professore."
Guardo Stanton, incredulo.
"Lei è pazzo. Spende soldi che non ha, anzi, che non è sicuro di riuscire ad avere."
L'uomo mi guarda come se il pazzo fossi io, e quanto dice conferma la mia impressione.
"Lei è uno stupido, professore. Non sa nulla di economia? Il mondo funziona così: se non le piace, perché non si è trasferito altrove? Aveva il cristallo e la capacità di usarlo. O pensa davvero", e stenta a trattenere una risata, "che dovremmo aspettare di avere i soldi in mano? E dare ai nostri concorrenti il tempo per soffiarci gli affari?"
Non trattiene più le risate.
"La sua ditta finirà per fallire, Stanton; e anche i suoi concorrenti …"
Lo penso davvero; ma l’affarista di fronte a me non ascolta. Non ha mai ascoltato.
"Capisce bene, professore, che a noi serve il cristallo. Adesso. Altrimenti non potremo tener fede ai nostri impegni, e sarebbero guai per tutti, lei compreso."
"Lei non avrà il cristallo."
L'uomo smette di camminare avanti e indietro, e mi fissa socchiudendo gli occhi, quasi ponderando la prossima frase.
"Lei non capisce. Crede davvero di poterci mettere i bastoni fra le ruote? Ci dirà comunque dove si trova il cristallo, con le buone …"
Non lascio che finisca.
"Potete picchiarmi, potete torturarmi. Non vi dirò dove si trova il cristallo."
L'uomo mi fissa ancora, lo sguardo che esprime qualcosa di simile alla compassione.
"E' ora che lei capisca."
E, prima che io possa replicare ancora una volta, si avvicina al suo gorilla, che fino a quel momento è rimasto indifferente alla nostra conversazione, e gli fa un cenno con la testa. Questi apre la porta e, senza richiuderla, esce dalla stanza; lo sento risalire le scale.
Che succede? Probabilmente un altro uomo è di guardia in camera da letto, a sorvegliare il bambino, e il gorilla sta andando a dargli il cambio. Ma perché?
Forse devono portare in cantina qualcosa per torturarmi; temo che lo faranno davvero, dopotutto. Non sembrano tipi da avere qualche scrupolo.
Nel frattempo, tuttavia, le corde si allentano sempre più; chissà, altri dieci minuti e la situazione potrebbe cambiare, per quanto disperata sembri sul momento.
Sto ancora valutando le mie possibilità quando sento qualcuno scendere lentamente le scale, e con un ultimo, sgradevole sorriso, l'uomo in giacca e cravatta mi guarda di traverso e fa entrare nella stanza un'altra persona, alla quale mormora in fretta e a bassa voce qualcosa che non riesco a sentire.
Poi se ne va, chiudendosi la porta alle spalle, e mi lascia, perplesso, insieme al nuovo venuto: quest'uomo sarebbe un pericolo?
E' vecchio, molto vecchio, e nonostante abbia un'aria ancora sana e robusta non è neanche un uomo imponente e minaccioso. Le rughe si affollano sul suo volto; avrà ottant'anni, forse anche più, e potrebbe essere un commerciante in pensione, un vecchio, innocuo borghese dedito al giardinaggio e alla buona tavola.
Lentamente -zoppica un po’ dalla gamba destra- si avvicina, fissandomi con aria innocua, e si ferma a un paio di metri dalla mia sedia, senza mai distogliere lo sguardo dal mio.
Ma poi, improvvisamente, sorride: ed è come se il buio calasse nella stanza, come se davanti a me vi fosse qualcosa di orribile, qualcosa riemerso da un mondo oscuro e dimenticato. Non è un sorriso, questo, ma un ghigno malvagio e raggelante che deforma il volto del vecchio fino a renderlo demoniaco. Dove, dove ho già visto questo volto mostruoso?
"E' tanto tempo che noi non vediamo, herr Van Laen."
La voce, suadente, persuasiva quasi, eppure maligna; e quel sarcasmo che avverto nella parola ‘herr’, signore: l'incubo diventa reale, un ricordo lontanissimo si riaffaccia al mio presente, ed io sento l’angoscia travolgermi e la speranza allontanarsi.
"Rodeck!" è tutto ciò che riesco a mormorare, la voce che mi si strozza in gola.
L'uomo incrocia le braccia; il suo ghigno si allarga.
"Lei ha grande memoria, vedo. Quanti anni aveva? Quattro? Cinque?"
Rialzo lo sguardo, spinto dalla disperazione, e torno a fissare il mostro che mi ha in suo potere.
"Maggiore Heinz Rodeck" -invano cerco di mettere nella parola ‘maggiore’ lo stesso sarcasmo- “nel 1944 lei ha deportato mio padre ad Auschwitz; avevo sei anni …"
L'uomo alza appena un sopracciglio.
"Lei riconosce me dopo quasi cinquant’anni. Gut! Grande memoria."
"Nessuno può dimenticare!"
"Lei certo ricorda anche dove ha lasciato il cristallo, ja? Suo padre mai è tornato da Polonia, ma lei può tornare a casa, invece."
Devo vincere la mia angoscia; mentre torno a lavorare sulle corde, guardo Rodeck, cercando di mantenermi calmo.
"Perché fa questo? Cosa vuole, ancora?"
I suoi occhi diventano due fessure.
"Sie sind Jude. Lei è ebreo."
Non ho parole; non ho risposte da dare a un uomo che, dopo cinquant'anni, ancora mi odia senza motivo.
"Molti di noi hanno continuato. Pagano bene, ja. Noi sappiamo come fare, loro chiedono aiuto, noi diamo. E lei è ebreo."
Sento che le corde si allentano, decisamente.
"Rodeck, il suo mondo non esiste più. Lei è un vecchio patetico: crede di poter tornare indietro e vincere la guerra?"
Qualcosa brilla nei suoi occhi.
"Non importa. Non hanno capito. Noi ancora grandi, noi tedeschi. Juden sind Juden: un ebreo sempre è ebreo, noi sempre superiori. Oggi come ieri."
E' l'esaltazione. Vedo il ghigno allargarsi nel ricordo dei vecchi tempi, delle vecchie ideologie: il maggiore delle SS Heinz Rodeck, fantasma di un passato remotissimo, torna a nuova vita. Non sa di essere soltanto una fotografia ingiallita tolta da un cassetto polveroso.
Ma può far male un fantasma? Chissà che tipo di tortura usava, ai suoi tempi; anche se ne ricordo ancora il volto e la voce, non ho idea di cosa possa farmi oggi, specialmente alla sua età.
"Rodeck, lei mi odia perché sono ebreo. Ma questa gente che la paga per torturarmi, questi americani che hanno sconfitto il suo Führer e ai quali si è venduto, crede che gliene importi qualcosa? Il denaro, questo importa loro. Tratterebbero lei allo stesso modo, se avesse qualcosa che loro vogliono."
Lo sguardo del vecchio rimane impenetrabile; il mondo in cui vive non conosce dubbi.
"Io posso fare a lei molto male. Molto più di quello che può pensare. Io sono vecchio, ma posso fare ancora cose che lei non immagina."
Sì, le corde stanno per cedere. Ma la mia attenzione rimane concentrata sul vecchio nazista.
"Che fine ha fatto il suo mondo, herr Major? Per cosa ha combattuto? Per farsi pagare, per rapinare qualcuno facendo finta di servire i suoi ideali? Il suo mondo è morto, Rodeck, e persino il suo Führer, a suo tempo, lo ha capito; perché non si è sparato anche lei? Perché non ha seguito il suo esempio?"
Lo sguardo del vecchio è terribile, ora; ma io sono quasi libero, e non ho bisogno che di un altro minuto, due al massimo.
"Lei non crede davvero in quello che dice, Rodeck. I suoi compagni le sputerebbero addosso se la vedessero ora, al soldo degli americani, mentre finge di essere quello di una volta."
E forse mi pare di vedere per un istante, un istante brevissimo, un dubbio attraversare quegli occhi spietati; quelle parole che nessuno, e certamente non un ebreo, gli deve aver mai detto in faccia, non possono rimanere inascoltate. O impunite.
"Lei non dice quello che noi vogliamo sentire, dummer jude(3). Meglio tacere, allora."
Con un gesto lento e studiato, il vecchio apre la sua giacca, ed io intravedo una tasca dalla quale spuntano i manici di alcuni coltelli molto sottili, dei bisturi forse. Con un gesto teatrale ne estrae uno e mi si avvicina lentamente.
"Ja. Meglio tacere."
Ci sono. Ci sono quasi. Ancora pochi secondi ...

Il coltello è già a pochi centimetri dai miei occhi quando qualcosa esplode nella casa, facendo rimbombare lo scantinato. E' questione di pochi attimi: il vecchio nazista che si gira, stupito, io che con un ultimo sforzo riesco a liberarmi, a saltargli addosso e a scaraventarlo per terra, e poi con un balzo raggiungo la porta che dà sulle scale.
Rodeck, sbalordito ma non ferito, mi guarda senza riuscire a rimettersi in piedi; io apro la porta giusto in tempo per vedere il gorilla di Stanton ruzzolare giù per le scale, sbattere contro il muro e lanciare un urlo di dolore. La sua gamba è piegata in modo innaturale; la fortuna è dalla mia parte, a quanto sembra!
Senza badare troppo alla nebbiolina che riempie lo scantinato -che importa cosa sia esploso?- salgo le scale in pochi secondi, deciso a prendere di sorpresa anche Stanton, a strangolarlo se necessario: ma su, nel soggiorno, non vedo nessuno. Stanton non c'è! Non credo alla mia fortuna, e sono già quasi nel cortile, quando una voce alle mie spalle mi ricorda che non sono l'unica vittima della situazione.
"Babaji(4), help."
Il figlio di Anusha!
"Babaji, please help."
Un bambino magro, spaurito, è appena uscito dalla camera da letto, e volge uno sguardo terrorizzato in giro. Poi i suoi occhi incontrano i miei.
"Come here! Come! Durna!(5)", gli urlo senza muovermi.
Il bambino decide; una corsa ed è al mio fianco, scalzo, tremante. Un'altra corsa e siamo entrambi fuori, nel caos di Plakaram Road, nel frastuono che tutto avvolge e cancella. Lo prendo per mano, attraverso la strada e mi fermo dietro una vecchia automobile a prendere fiato, incurante degli sguardi stupiti dei passanti. Un europeo dall'aria stanca e preoccupata che porta per mano un bambino indigeno, a sua volta malconcio e spaventato: quanto basta per alimentare un po' di pettegolezzi nei giorni a venire.
Guardo verso il numero 43: nessuno ne esce, nessuno si avvicina. La fortuna continua ad essere dalla mia parte, o forse Stanton e i suoi mi hanno sottovalutato.
Ma non posso permettermi troppi pettegolezzi. Fermo il primo risciò che passa, e vi entro senza esitare, portandomi dietro il bambino; al conducente, non meno stupito dei passanti, dico di andare verso il primo posto che mi viene in mente, un albergo all’altro capo della città.
E, mentre il piccolo veicolo si allontana, intravedo con la coda dell'occhio Stanton che risale la strada, l'aria tranquilla e soddisfatta di chi pensa che la sua preda sia al sicuro, e in mano un pacchetto che ha tutta l'aria di essere un souvenir da poche rupie: forse anche questo ripugnante individuo ha qualcuno che lo aspetta a casa, magari ignaro dei suoi veri compiti.
Ma ho altro a cui pensare. Mi decido finalmente a parlare al bambino; una carezza e un sorriso, uniti a un tono rassicurante e alle poche parole di hindi che conosco, fanno il miracolo. Il suo sguardo si rasserena, la sua mano si rilassa, i suoi pensieri vanno alla madre.
"Where mummy, babaji?"
Siamo abbastanza lontani da Plakaram Road, adesso. Mi sporgo verso l'autista, e allungandogli un biglietto da venti rupie -una piccola fortuna, per lui- gli chiedo di andare a una stazione di polizia. Lo stupore sul suo volto aumenta, ma la banconota ottiene l'effetto sperato e in pochi minuti siamo a destinazione; i poliziotti non mancano, in India, anche se i loro uffici hanno poco in comune con quelli del cosiddetto mondo civilizzato.
Altre dieci rupie al conducente del risciò, e la sua bocca rimarrà chiusa per sempre; dopo di che posso portare il bambino nel vecchio e cadente edificio, ricordo della dominazione inglese, per spiegare sommariamente quanto è successo e chiedere che la madre venga avvertita.
Ma le cose non sono semplici come avevo sperato: un europeo che accompagna un bambino del posto è cosa troppo insolita anche per i funzionari pigri e burocratizzati di Madras, e dopo molti sguardi e qualche colpo di tosse un uomo anziano ma autoritario mi invita a seguirlo nel suo ufficio per le spiegazioni di rito.
La stanza, ingombra di scartoffie e di polvere, è in penombra; un geco, immobile sul muro di fronte a me, attende che qualche zanzara passi dalle sue parti.
Le sedie, prossime a cedere sotto il peso degli anni e delle molte persone che le hanno usate, non sono accoglienti; a fatica spiego quanto è successo, cercando di farmi passare per un uomo d'affari olandese ricattato dalle multinazionali americane, che in India non sono viste con particolare simpatia.
La mia fatica è vana; dopo uno sguardo all'orologio appeso al muro, che segna le 18.15, il poliziotto sbuffa e passa direttamente alla richiesta abituale in questi casi.
"Passport, please."
E' passato solo un quarto d'ora dalla mia fuga, e rischio di ritrovarmi in una prigione indiana: ho dimenticato con quanta diffidenza vengono trattati gli stranieri che creano problemi, in questo paese, e comincio a pentirmi di non avere semplicemente lasciato il bambino di fronte all’ingresso del vecchio edificio.
Che fare? Ovviamente non c'è visto, sul mio passaporto. E se rimango in prigione, anche solo per pochi giorni, posso dire addio al cristallo: al "Calicut" non aspetteranno certo il mio ritorno per ripulire la stanza e scoprire cosa ho nascosto nel portacenere.
Cerco di convincere il mio interlocutore che ho lasciato in albergo il passaporto, e che se vogliono possono accompagnarmi a riprenderlo; se acconsentono potrò recuperare il cristallo e svanire nel momento più opportuno.
Ma il poliziotto sbuffa, spazientito: le mie spiegazioni devono suonargli fasulle, e d'altra parte lo sono davvero. Sono ormai preparato al peggio, quando il bambino, che fino allora è rimasto in un angolo, si fa avanti e interrompe la conversazione: gesto inaudito, in un paese in cui l'autorità è temuta più che rispettata, e del tutto impensabile in difesa di uno straniero. Meno che mai da parte di un bambino.
Pure il poliziotto lo ascolta; quale legame vi sia fra loro, e cosa si dicano, parlando fittamente in hindi per qualche minuto, non so e non saprò mai. Ma alla fine lo sguardo dell'uomo, che passa continuamente dal volto del bambino al mio, sembra rasserenarsi; la conversazione ha fine, e per un lungo minuto il poliziotto rimane a fissarmi, in silenzio.
"Go to your hotel. Bring passport here.", dice infine.
Non me lo faccio ripetere due volte. Mi alzo sorridendo, lo saluto, e dopo aver scambiato col bambino un ultimo sguardo, non so neanch'io se di gratitudine o di complicità, me ne vado, cercando di farmi notare il meno possibile.

E' solo dopo che un risciò mi ha riportato al "Calicut", ed io sono risalito in camera con aria indifferente, e infine ho ritrovato il cristallo nel portacenere, che posso rilassarmi e ripensare agli avvenimenti del pomeriggio.
Steso sul letto, la mano stretta sul cristallo, ripenso a Rodeck, al suo volto segnato dalle rughe e dall'odio; a quel volto che troppe volte è tornato nei miei incubi a ricordarmi un passato doloroso e mai dimenticato del tutto.
Anch'io lo odio? Sì, odio questo vecchio nazista, che non ha accettato la sconfitta e ha passato tutta la sua vita a far del male agli altri. Non solo a mio padre, non solo durante la guerra: quanto durerà, ancora? Quando cesserà questo incubo? Quanti altri come lui, dopo di lui?
Ma ripensando alla mia fuga rocambolesca, ricordo che devo avere anche un amico sconosciuto: chi ha provocato l'esplosione che ha distratto Rodeck e ha fatto cadere per le scale il gorilla di Stanton? E chi mi ha mandato il biglietto di avvertimento?
E d'improvviso mi rendo conto che sono domande a cui posso rispondere, al semplice prezzo di un mal di testa e un po' di nausea; sensazioni non piacevoli, ma che so di poter sopportare. Dove, quando?
Due ore fa, più o meno; qui fuori, in qualche angolo isolato del giardino.
La mia mano stringe il cristallo; mi concentro sul tempo e sul luogo desiderato e poi, ancora una volta, una luce accecante si sprigiona dal misterioso oggetto che tengo in mano: il mondo intorno a me sembra collassare, e per un istante brevissimo mi sembra che l'universo intero si chiuda in sé stesso, cancellato dalla luce che mi avvolge ... poi questa si allontana, svanisce, ed io mi rendo conto di essere seduto in terra, da qualche parte, con la testa che pulsa dolorosamente e la nausea che quasi mi soffoca.
Cerco di aprire gli occhi e di guardarmi intorno: mi sembra che non ci sia nessuno nelle vicinanze, e il cancello che dà sulla strada è abbastanza lontano. Sono al sicuro; rimango seduto a lungo, finché non sento la nausea passare e la mente schiarirsi.
Infine mi alzo, barcollando. E’ tempo: un inserviente dell’albergo entra in giardino da una porta laterale e mi lancia un’occhiata sospettosa; gli sorrido a stento ed esco sulla strada, dove mi fermo non lontano dall’entrata principale del "Calicut". Guardo l’ora: le 16.50; il biglietto mi è stato recapitato verso le 17, per cui da un momento all’altro vedrò chi lo ha portato.
Ma i minuti passano, nessuno entra od esce dall’albergo, e i postulanti che si avvicinano, chiedendomi se ho bisogno di un alloggio, di un ristorante, di un taxi, o anche di hashish, mi distraggono continuamente.
Ne ho appena mandato via uno che voleva portarmi nel suo negozio, quando lo sguardo mi cade su di una piccola bottega, dall’altro lato della strada, che sembra vendere un po’ di tutto, ma specialmente giocattoli, maschere e addobbi per le molte feste che si celebrano da queste parti.
Un’idea improvvisa mi attraversa la mente. Un’idea strana, quasi folle. D’istinto attraverso la strada, evitando per un pelo le ruote di un camion, entro nella bottega, e compro una busta, una penna, e un foglio bianco.
Ricordare i dettagli è questione di un attimo; senza distogliere lo sguardo dall’entrata del "Calicut" mi affretto a scrivere sul foglio "Nascondi il cristallo in un luogo sicuro", e poi sulla busta "professor Hermann Van Laen, stanza 19"; piego il foglio, lo infilo nella busta, esco dalla bottega ed attraverso nuovamente la strada, senza neanche fare attenzione. Non serve, già lo so. Un carretto mi sfiora, e il conducente impreca verso di me; ma non ci bado, e l'uomo continua per la sua strada.
Arrivo all’entrata del "Calicut" e guardo al suo interno: come immaginavo, il portiere non si trova al suo posto, dietro il bancone. Poco importa dove sia andato; entrare, lasciare la busta in bella vista e uscire di nuovo in strada è questione di un attimo.
Rido. Rido di cuore dopo molti giorni. E so che non è finita: sempre ignorando i veicoli che percorrono la strada e i cui padroni, d’altronde, sono abituati a schivare persone ed animali, torno nella bottega e acquisto un petardo, uno rumoroso e che faccia tanto fumo. Poi mi incammino a piedi verso Plakaram Road, senza aspettare che una persona che conosco fin troppo bene esca dal "Calicut", fermi un risciò e si metta a contrattare il prezzo della corsa.

Ben presto i postulanti smettono di venirmi dietro: sono entrato nella zona di Madras poco frequentata dai turisti, e ricevo più occhiate di curiosità che richieste di denaro; ho persino il tempo di fermarmi in un piccolo bar e prendere quel tè che Anusha non ha potuto offrirmi. Alcune scimmie si aggirano sul marciapiede, quasi davanti ai miei piedi, cercando le briciole lasciate cadere dagli avventori; mentre le guardo sento tornare le vecchie preoccupazioni. Che devo fare, adesso? Il bambino di Anusha è -sarà- ormai al sicuro, ed io potrei cercare nuovamente di contattarla. Ma Stanton e Rodeck non si arrenderanno tanto facilmente, e non sono i soli a darmi la caccia. L'India è grande, ma vivere braccati non è piacevole. Non ho il diritto di coinvolgere qualcun altro nei miei problemi; mia è stata la decisione di sottrarre il cristallo alla cupidigia delle multinazionali, mia è la responsabilità. Quanto è accaduto ad Anusha per colpa mia non deve ripetersi: non cercherò più di incontrarla, né lei né altri. Il mondo è grande, il tempo anche; e per quanto l'idea di rifarmi una vita in un'epoca passata e sottrarre per sempre il cristallo a questo mondo, dove non vi sono soltanto gli Stanton e i Rodeck, mi sembri troppo drastica, pure so di avere una via di fuga. Una via definitiva, un'ultima risorsa alla quale non vorrei ricorrere ma che prima o poi dovrò prendere in considerazione.
Addio, Anusha: ci siamo conosciuti due anni fa, al tempo dei primi esperimenti; da allora ci siamo scritti spesso, anche se non sono mai andato a trovarla, né lei è venuta a trovare me. Io le scrivevo della mia voglia di conoscere i grandi uomini del passato, e lei della sua speranza di riuscire a utilizzare l’energia del cristallo per scopi diversi dal teletrasporto; io volevo ascoltare Socrate e cavalcare con Giulio Cesare, e lei sognava di poter curare le malattie.
Magari ci riuscirebbe, prima o poi. Lei era la sola di noi tre capace di accendere il cristallo senza teletrasportarsi: una volta, in un laboratorio di Ginevra, lo vidi splendere di una luce soffusa che appariva dorata e argentea nello stesso tempo, in uno spettacolo dalla bellezza ineguagliabile e ineguagliata: e lei era là, la mano appena protesa a sfiorare quell’oggetto misterioso.
Addio, Anusha.
Pago il mio tè e torno a incamminarmi verso Plakaram Road: c'è ancora qualcosa che devo portare a termine, prima di prendere qualsiasi decisione.

Ed eccomi di nuovo di fronte al numero 43. Sono quasi le 18, come previsto, ed io mi introduco furtivamente nel cortile: so già quello che troverò oltre la porta alla mia destra. Stanton da tutt'altra parte, a comprare souvenir, il suo gorilla a fare la guardia al bambino e Rodeck in cantina, intento a discutere con un ebreo testardo.
Silenziosamente mi avvicino alla porta, che è rimasta aperta; nel cortile nulla è cambiato rispetto alla mia prima visita. Il vecchio carretto è sempre appoggiato al muro, con una ruota storta e un semiasse in procinto di spezzarsi, e nessun bambino è venuto ad esplorare i molti angoli bui e le porticine che conducono chissà dove.
Muovendomi con prudenza, per non farmi vedere dal gorilla di Stanton, mi sposto fino a raggiungere un punto dal quale posso vedere l'imboccatura delle scale che conducono in cantina: il gorilla deve trovarsi nella metà del soggiorno al di fuori della mia visuale, di fronte alla porta della camera da letto. Il figlio di Anusha è chiuso in questa camera.
Esito. Poi ricordo che non ho assolutamente niente da temere, e che nulla può andare storto: questa è la mia ora, e nessuno mi fermerà.
Ho solo un attimo di panico quando esamino il petardo e scopro che non ho idea di come accenderlo: ero così sicuro di me, al momento dell'acquisto, che non ho pensato a farmelo spiegare dal bottegaio. Né ho fiammiferi o accendini, con me.
Per un attimo mi chiedo se posso innescare un paradosso: niente petardo, niente fuga, o almeno niente fuga nelle stesse circostanze; e forse non è questo il momento di fare esperimenti sui viaggi nel tempo. Ma poi noto un disegno sull'involucro del petardo, e tutto mi è chiaro: basterà tirare la miccia, e lo sfregamento ne provocherà l'accensione.
Ritrovo la mia sicurezza e tutto procede come previsto: lo strappo della miccia, l'accensione del petardo, e infine il suo lancio giù per le scale. Pochi secondi, e un'esplosione sorda mi conferma che non è ancora il momento dei paradossi; pochi secondi ancora, e il gorilla di Stanton si precipita in cima alle scale a vedere cosa è successo. Scivolare alle sue spalle e spingerlo di sotto è questione di un attimo.
Però non è finita, non ancora: pochi istanti e vedrò un altro me stesso comparire nel soggiorno; un me stesso che non ha fatto strani incontri, prima. Dovrei andarmene, e in fretta; ma la curiosità ha il sopravvento, e decido invece di infilarmi nella stanza in cui non si trova il figlio di Anusha e ascoltare quanto sta per succedere.
E' una cucina, stretta e lunga; ho appena richiuso la porta alle mie spalle che sento dei passi nel soggiorno: passi che, dopo un attimo di esitazione, sembrano allontanarsi. Appoggio l'orecchio allo stipite, e quasi nello stesso istante avverto il lieve cigolio di un'altra porta che si apre: subito dopo un bambino parla.
"Babaji, help."
Trattengo il fiato.
"Babaji, please help."
E poi un'altra voce, una voce che dovrei conoscere bene ma che non ho mai sentito prima d’ora.
"Come here! Come! Durna!"
Mi sembra tutto un sogno; poi sento qualcuno correre e infine allontanarsi, e poco dopo tutto è silenzio, nella casa in Plakaram Road.
Dovrei andarmene, prima che torni Stanton. Ma un misto di eccitazione e di curiosità mi spinge a rimanere, ad ascoltare cosa può essere successo dopo la mia fuga; mi convinco che potrei anche scoprire qualcosa di utile, qualcosa che in futuro mi eviterà di cadere in altre trappole.
Dimentico, tuttavia, che stavolta non so nulla di quanto sta per accadere, e la vista di una seconda porta in fondo alla cucina basta a tranquillizzarmi. Stupidamente non controllo neanche se la porta sia aperta, e se per caso non conduca semplicemente in un'altra stanza priva di uscite.
Eccitato, quasi esaltato da quegli avvenimenti così strani, torno a chinarmi e ad appoggiare l'orecchio sulla porta che mi separa dal soggiorno; quel soggiorno in cui, non più di un minuto o due dopo, sento risuonare dei passi.
Passi che si fermano, subito.
Dopo un istante di silenzio la voce di Stanton risuona, chiarissima.
"Richard?! Dove sei?"
Sento una voce che chiama dalle scale. Sento Stanton che si precipita giù.
Poi qualcuno grida, più volte. E' sempre lui, probabilmente, anche se non riesco a sentire cosa stia dicendo.
Segue un breve silenzio, e poi di nuovo qualcuno che parla a voce alta, in fretta. E ancora un momento di silenzio, come se qualcun altro, a voce più bassa, stesse rispondendo.
Sto valutando se non sia finalmente il caso di andarsene, quando sento dei passi risalire le scale, e poi fermarsi proprio di fronte alla porta della cucina. Solo allora mi rendo conto del pericolo e mi decido: in un attimo sono all'altra porta, cerco di aprirla ... ma la trovo chiusa.
Idiota che sono stato! E stavolta ho il cristallo con me. Né posso adoperarlo per fuggire: lo sforzo mentale che comporta il suo uso è troppo grande, ed occorrono non meno di dodici ore prima di recuperare del tutto le energie e poterci riprovare. Non ce la farei neanche se la salvezza dell'intera umanità dipendesse da me.
In preda all'angoscia, torno ad ascoltare quanto succede nel soggiorno: due persone stanno litigando, e uno dei due è senza dubbio Stanton; in quanto all'altro, che sta parlando a voce più bassa, credo sia Rodeck.
"Imbecille! Come ho potuto fidarmi di lei? Di un vecchio idiota che si fa mettere nel sacco da un cretino qualsiasi?"
Rodeck mormora qualcosa, a bassa voce.
"Tutto questo per nulla! Dobbiamo ricominciare da capo, vecchio imbecille."
Continuo a non capire cosa stia dicendo Rodeck in sua difesa; dal tono mi sembra umiliato, più che offeso.
"Prendiamo il bamb..."
Un urlo terribile interrompe la frase; sento sbattere una porta.
"Dov'è il bambino? Il bambino!"
Pur preoccupato come sono, non riesco a trattenere un sorriso.
"Schifoso nazista! Dovevamo farvi impiccare tutti a Norimberga, maledizione! Van Laen è scappato col bambino, capisce? Era la nostra ultima possibilità!"
Insulti e parolacce, in un crescendo di collera, soffocano del tutto la risposta del vecchio ufficiale delle SS; Stanton sembra fuori di sé, e temo che da un momento all'altro decida di controllare anche la cucina.
Ma che posso fare? Tento nuovamente di aprire l'altra porta, invano; né posso cercare di sfondarla: il minimo rumore richiamerebbe immediatamente l'attenzione dei due uomini nel soggiorno.
Sono stato proprio uno stupido. Forse potrei uscire all'improvviso, e approfittando della sorpresa infilare la porta che dà sul cortile e scappare a gambe levate. Forse.
Intanto, le urla continuano.
"Idiota! Buffone! Tutto quello che sa fare è sentirsi male, adesso. Ma sì, crepi pure! Mi risparmierà la fatica di ammazzarla personalmente. Richard! Mi senti?"
Chi è che si sente male? Rodeck? In un lampo, prendo la decisione: il vecchio nazista fuori combattimento, Stanton sulle scale, a chiamare il suo gorilla; posso ancora farcela. Apro la porta della cucina e mi precipito fuori, deciso a mettere in atto il mio piano e a scappare di nuovo. Definitivamente, stavolta.
Ma nella prima fuga devo avere esaurito la mia scorta di fortuna: Stanton non è sulle scale, e me lo trovo davanti, in mezzo alla stanza, incredulo nel vedermi ricomparire del tutto inaspettato.
Rotoliamo entrambi per terra; ed io devo essere ancora in debito con la fortuna, perché cadendo inciampo in una sedia e mi ritrovo con una caviglia dolorante. Quando riesco a rimettermi in piedi è tardi: una pistola è puntata contro la mia testa, e Stanton, lo sguardo tra il compiaciuto e l'incredulo, mi guarda freddamente.
Intravedo appena Rodeck, su un lato della stanza, appoggiato al muro; ma tutti i miei pensieri sono rivolti a Stanton, il quale, oltre ad avere una pistola, si trova fra me e la porta che dà sul cortile e poi su Plakaram Road.
Come ho potuto essere così stupido?
"Richard! Cerca di tornare qui!"
Forse, se grido, dalla strada possono sentirmi. O forse no.
"Non so perché lei sia ancora qui, professor Van Laen, ma stia pur sicuro che stavolta non se andrà così facilmente."
Non ne dubito. Stanton non ha occhi che per me, per ogni movimento che faccio, e prendere ancora tempo mi servirà a poco, temo.
"Mi occuperò io di lei, stavolta. Niente vecchi imbecilli a fare la guardia. Non sarò bravo come questo buffone qui dietro" -e indica Rodeck con un cenno della testa- "ma le assicuro che ho molto, molto più tempo."
Sono impotente; non so più cosa fare, e neanche cosa dire per guadagnare tempo.
"Scenda. Subito!"
Mi indica la scala con un altro cenno della testa. Lentamente, comincio a muovermi di lato; Stanton si gira con me, controllando i miei movimenti e annuendo soddisfatto.
Poi, d'un tratto, non sorride più; il suo sguardo diventa vitreo, la sua bocca si apre lentamente, ma nessun suono ne esce.
Non capisco, non riesco a capire: poi la mano che regge la pistola si apre, e qualcosa di simile ad un grido strozzato esce dalla bocca dell’americano. E' solo quando le ginocchia gli si piegano, e l’uomo si rovescia in terra ai miei piedi, che vedo un coltello spuntare dalla sua schiena, piantato in direzione del cuore.
Davanti a me c'è Rodeck, adesso, pallidissimo e ricoperto di sudore, la mano ancora protesa nel gesto assassino.
Ancora non riesco a capire. Che succede? Perché?
Ma mentre Stanton si affloscia, con un ultimo rantolo, e rimane immobile, anche Rodeck barcolla e si lascia cadere su una sedia, in un angolo della stanza; lo sento gemere, la mano destra che stringe il braccio sinistro, il volto contratto in una smorfia di dolore.
Scavalco il corpo di Stanton e mi avvicino al vecchio nazista; la consapevolezza di quanto è appena successo sembra finalmente emergere da un luogo remoto, mentre i miei sentimenti di odio svaniscono come se non fossero mai esistiti.
Rodeck alza appena la testa e mi guarda; l'espressione diabolica di poco prima è scomparsa, e non vedo nei suoi occhi che la consapevolezza della morte imminente.
"Vada … via."
"Chiamerò un medico, Rodeck. Stia calmo."
"Vada via ... prima che trovino lei ... qui dentro."
Sì, devo andare. Una stupidaggine è già abbastanza, e il gorilla, di sotto, potrebbe anche riuscire a risalire le scale.
"Perché, Rodeck? Perché?"
Il vecchio nazista sembra sussultare, in uno sforzo disperato.
"Aveva ragione ... herr Van Laen" -sorride?- "noi siamo ... fantasmi."
Dev'essere doloroso anche tenere la testa alzata, nelle sue condizioni; istintivamente allungo una mano a sorreggerla.
"Nostre idee ... morte. Nostro mondo ... morto. Tutto ... ist tot."
I suoi occhi rimangono spalancati. Non c'è più bisogno di sostenerlo.
Mi ritraggo. Ho mai odiato quest'uomo? L'ho mai odiato veramente? Un vecchio, in un angolo buio di una misera casa di Madras, India del Sud; un uomo lontano dalla sua Germania quanto io lo sono dalla mia Olanda, da Utrecht, dalla mia scuola. Un uomo che non tornerà più indietro, e il cui ultimo gesto è stato quello di salvarmi la vita.

Torno in me. Sento il gorilla di Stanton lamentarsi, giù in cantina, e chiedere aiuto. Guardo l'ora: le 18.15. In questo stesso momento sono intento a discutere con un poliziotto del mio passaporto: nessuno potrà mai collegarmi ai due morti in Plakaram Road.
La mia fuga può riprendere.
Mi avvicino alla porta che dà sul cortile; ma un attimo prima di uscire mi volto e torno a guardare Rodeck. Il suo sguardo, ormai vuoto, è rimasto fisso sul muro di fronte.
Torno sui miei passi; e nuovamente allungo una mano verso di lui, stavolta per chiudere i suoi occhi.
"Aufwiedersehen, herr Major."
Ora me ne posso andare.

(1) Chennai è il nome indiano di Madras.
(2) Via di mezzo fra il teatro e il mimo, diffusa specialmente nell’India del Sud.
(3) “stupido ebreo”
(4) Termine con cui gli indiani si rivolgono a persone che ritengono sagge e importanti.
(5) “Corri!”


Non ottenni alcun successo al premio Omelas. A dire il vero non ci speravo, specialmente dopo aver saputo che la famigerata Anna Feruglio Dal Dan (tra le più note traduttrici italiane) faceva parte della giuria: ero da tempo nel suo kill-file, da quando, per l'esattezza, avevo osato parlare male di "Episode 1", film che lei osannava, e il fatto che nel suo kill-file ci siano quasi tutti gli abitanti di questo pianeta non significava che vi fossero proprio tutti i partecipanti all'Omelas.
In ogni modo, secondo quanto mi fu riferito, il mio racconto fu scartato perché fuori tema: all'Omelas bisognava mandare solo racconti che si occupassero di diritti umani (per quanto di fantascienza) e i miei accenni alle prevaricazioni delle multinazionali e all'uso della tortura non furono, a quanto pare, ritenuti sufficienti.
Peraltro pare che il problema fosse comune a quasi tutti i partecipanti, motivo per cui non si è più tenuta un'altra edizione del premio. Ne sentiremo la mancanza?