Colore... COLORE!!!
testo e illustrazioni di Andrea de Prisco
Gira che ti rigira, quando si parla di fotografia digitale le "dolenti note" sono sempre rappresentate dagli aspetti cromatici delle immagini piu' che dalla loro risoluzione o, in generale, dal loro trattamento numerico. In particolar modo, l'utente meno esperto o chi si avvicina per la prima volta a questo mondo, si scoraggia facilmente quando nota che, partendo da un originale su diapositiva o su carta, la visualizzazione a video offre risultati completamente inaspettati e l'eventuale stampa a colori, spesso, addirittura disastrosi. Specialmente quando si e' lavorato per ore a cercare quel determinato effetto cromatico (intenzionale o di correzione dominante) per poi rendersi conto di dover ricominciare tutto da capo una volta visto (e disprezzato) il risultato su carta. Il problema, come avrete modo di rendervene conto meglio leggendo questa nuova collezione di articoli, e' tutt'altro che banale... e viene normalmente considerato come la "cenerentola" della situazione. Non si capisce perche', ma all'utente "normale" (bisogna poi intendersi maggiormente sul concetto di normalita', tutt'altro che definito) sembra non sia concesso ottenere con facilita' risultati cromatici soddisfacenti, a meno di non ricorrere a bizzarre peripezie dalla ripetitivita' piu' o meno saltuaria. Certo, l'esperienza serve in ogni campo, ma a voi sembra giusto che sia cosi' difficile trasportare la giusta informazione cromatica da un dispositivo all'altro senza provocare, in ogni passaggio, nuove (spiacevoli) sorprese? L'utente alle prime armi che deve fare? E quelli piu' esperti, come dovranno comportarsi davanti ad un nuovo scanner, un nuovo monitor, una nuova stampante a colori teste' installata? Disponendo "in proprio" di tutti gli anelli della catena fotodigitale i problemi non sono pochi, ma cosa succede se ci appoggiamo, come spesso accade, a service esterni per la digitalizzazione e/o per la stampa a colori o la fotorestituzione? Cercheremo di rispondere non solo a queste domande iniziali e affronteremo in dettaglio l'argomento Colorimetria con una serie di articoli «tecnici-ma-non-troppo» proposti per qualche numero con cadenza quasi mensile. Il "quasi" non e' dovuto a nostra incuria (ci mancherebbe altro!) ma al fatto che siamo intenzionati a guidarvi in questo mondo ipercolorato non soltanto attraverso indicazioni tecniche di chiara derivazione (reinterpretazione?) teorica, ma appoggiando di volta in volta il discorso sviluppato a prodotti hardware e software dedicati al trattamento cromatico. Solo con questi, si sa, e' possibile ottenere risultati soddisfacenti, senza mezzi termini, con procedure pressoche' automatiche. Parleremo di monitor, di stampanti a colori, di software di calibrazione cromatica, alcuni anche di difficile reperibilita' (certo non impossibile) e per questo potremo avere qualche ritardo sulla tabella di marcia. Ma non escluderemo certo l'utente hobbysta, notoriamente dal budget limitato, in quanto saranno comunque chiariti numerosi concetti chiave sull'argomento (aiutandolo, quindi, a non fare determinati sbagli) proponendogli anche alcune soluzioni, forse caserecce, ma comunque di valido supporto per smettere di imprecare malamente davanti all'oscenita' di una stampa qualitativamente discutibile. La teorica colorimetrica non e' materia banale, per secoli scienziati ne hanno curato ogni possibile aspetto. Come e' nostra consolidata abitudine (quasi sedici anni di straonorato servizio... siamo proprio gli unici a potercene vantare!), sviscereremo solo gli aspetti piu' interessanti, trattandoli nella maniera piu' comprensibile: e' la "solita" sfida che MC lancia senza tanti problemi. Come direbbe, a questo punto, un abile imbonitore di folle apprendista stregone? A me gli occhi...
Per l'appunto
Non si puo' iniziare a parlare di colore senza una rapida visita al nostro sofisticatissimo "biosensore optocromatico stereoscopico autofocus" che proprio in questo momento si frappone tra le righe che state leggendo e il vostro cervello: l'apparato visivo umano. Ma, puntini sospensivi!, prima ancora di tuffarci tra coni e bastoncelli (in tempi piu' recenti, nell'era della sponsorizzazione selvaggia, non avrebbero esitato a chiamarli Cornetti e Bastoncini!), cristallini, cornea e nervo ottico (stavo scrivendo "fibre ottiche"!!!) e' necessaria la premessa delle premesse. Tanto per confondervi subito le idee, cominciamo col dire che... i colori non esistono: siamo noi che li vediamo tali, ne' nessuno potra' mai garantirci che due individui differenti abbiano la stessa percezione cromatica. Sappiamo che l'erba e' verde, il cielo azzurro, la neve bianca, i pomodori rossi e siamo ben in grado (a meno di non essere daltonici) di riconoscere gli uni dagli altri. Ma come potremmo mai esser certi che le altre persone vedano il verde, cosi' come gli altri colori, nel nostro stesso modo? Potrebbe anche darsi che quello che noi vediamo come giallo, agli occhi di un altro individuo appaia come il nostro rosso (e viceversa), ma considerando il fatto che da quando si nasce vediamo i colori in quel modo non potremmo mai trovarci nulla di strano. Se non vi convince il ragionamento, cercate di descrivere un colore senza fare riferimento ad altri oggetti noti o ad altre tinte. Naturalmente lo stesso ragionamento vale per i suoni, i sapori, gli odori e... gli stati d'animo (lasciamo perdere quest'ultimo aspetto se no il ragionamento rischia di complicarsi inutilmente). Non per fare inutile filosofia, ma i "sensi" esistono solo in quanto percepiti da appositi "sensori" (occhi, naso, orecchie, papille gustative, ecc.). Se gli esseri viventi non avessero l'odorato... i fiori non sarebbero profumati, la gente si laverebbe di meno e il primo deficiente a costruire una fabbrica di deodoranti, fallirebbe miseramente come merita! Si potrebbe anche ipotizzare l'esistenza di nuovi sensori per ulteriori capacita' percettive di noi poveri, sprovveduti, esseri viventi. Senza esitazione alcuna avrei chiamato "Minollo" (la citazione alla famosa scenetta della Smorfia circa il diluvio universale e' d'obbligo) il biosensore barometrico per capire la tendenza al buono o al cattivo tempo, mentre sarebbe molto utile un "Lubranoide" atto a fiutare (il riferimento all'olfatto e' puramente casuale) i buoni, ma soprattutto, i cattivi affari. Dove posizionarli sul corpo umano sarebbe un bel problema, ma certo risolvibile (potrei istituire un concorso a premi... o, meglio, una gara d'appalto!).
Fiat Lux (benzina e diesel)
Lasciamo da parte le mie (solite) idiozie e torniamo ai colori. Comunque li vediamo grazie il nostro cervello, possiamo star certi di una cosa: se siamo in grado di distinguerli lo dobbiamo alla luce. Al buio assoluto, infatti, non c'e' alcuna differenza tra una pallina rossa e una verde, ma anche tra un lenzuolo teste' lavato col Dash e un drappo nero abbandonato dal pirata di turno. Ma la luce, in definitiva, che cos'e'? Semplice (si fa per dire...): e' una radiazione di natura elettromagnetica al pari delle onde radio, degli infrarossi, degli ultravioletti, dei pericolosi raggi X e dei micidiali raggi gamma. Quel che cambia e' la lunghezza d'onda e, conseguentemente, l'energia posseduta. A frequenze maggiori (lunghezza d'onda minore) aumenta l'energia e viceversa, se vogliamo questo e' uno dei motivi per cui le onde radio sono assolutamente innocue (specialmente alle frequenze minori) mentre i raggi X attraversano agevolmente i materiali non pesanti (lasciando spesso il segno) e quelli gamma sono sprigionati dalle reazioni atomiche (Hiroshima docet...). Lo spettro visibile della luce - come "vedete" c'e' di mezzo la capacita' percettiva dei nostri occhi - e' compreso, estremi esclusi!, tra l'infrarosso e l'ultravioletto. In basso troviamo le tinte piu' calde, rosse, in alto (in frequenza) quelle piu' fredde blu-violetto. La luce bianca comprende l'intero spettro visibile o, se vogliamo, e' la somma di tutte le frequenze corrispondenti ai colori dell'iride. Sfruttando la rifrazione ottica e' possibile suddividere un raggio di luce bianca nelle sue componenti spettrali (utilizzando un prisma cristallino) e lo stesso e' possibile all'inverso, prelevando i vari colori generati in questo modo e ottenendo nuovamente un raggio di luce bianca all'uscita di un secondo prisma disposto simmetricamente al primo. Da evidenziare, a questo punto del nostro viaggio colorato, che un oggetto qualsiasi illuminato da luce bianca riflette le componenti cromatiche di quest'ultima simili al suo colore e assorbe piu' o meno totalmente quelle complementari. Tenuto conto, ad esempio, che il colore complementare del blu e' il giallo, illuminando con una luce bianca una pallina gialla, la vedremo di questo colore "solo" perche' l'oggetto provvedera' ad assorbire piu' o meno tutto il blu che fa parte dell'illuminazione originaria. Da segnalare, en passant, che se provassimo ad illuminare con una luce blu una pallina gialla questa ci apparirebbe praticamente nera e lo stesso accadrebbe nel caso opposto (pallina blu con luce gialla). Questi "giochetti" erano il passatempo preferito di molti scienziati nei secoli scorsi e non staremo certo qui a studiarli nuovamente non essendo questo un corso scolastico medio-inferiore. E' importante, pero', non dimenticare questi concetti base, che tanto ci saranno utili per meglio comprendere gli aspetti base della colorimetria. Ma andiamo avanti.
Ci vuole occhio!
Siamo partiti dall'occhio o, meglio, dal nostro apparato visivo e siamo finiti per descrivere, molto approssimativamente, la luce. E' ovvio che senza luce l'occhio non avrebbe alcuna ragion d'essere ma e' pressoche' casuale (chiedete eventuali chiarimenti al riguardo al Buon Dio) il fatto che siamo sensibili solo alle radiazioni comprese tra la luce rossa e quella violetta. L'occhio e', praticamente, una telecamera a colori molto compatta, autofocus e con diaframma automatico. L'obiettivo e' formato dalla cornea e dal cristallino, la sua capacita' di messa a fuoco e' dovuta al potere diottrico variabile di quest'ultimo: gonfiandosi o stringendosi permette la messa a fuoco corretta di oggetti vicini e lontani. Gli anziani hanno difficolta' a vedere nitidi gli oggetti vicini proprio perche' il loro cristallino ha perso elasticita' e non raggiunge il potere diottrico sufficiente per la messa a fuoco a distanza ravvicinata: un paio di occhiali e... ti passa la paura. L'immagine davanti a noi viene proiettata, grazie all'obiettivo-cristallino, capovolta sulla retina (posizionata sul fondo dell'occhio): questa e' rivestita di coni e bastoncelli, elementi fotorecettori. Dall'occhio parte poi il nervo ottico che collega il tutto al cervello (regia della gran parte delle attivita' fisiologiche). I coni sono sensibili ai colori ed entrano in funzione in presenza di luminosita' medio-alta, i bastoncelli sono responsabili della visione in condizione di scarsa visibilita' e lavorano praticamente in bianco e nero. Una piccola zona centrale della retina, la fovea, e' caratterizzata da massima concentrazione di coni e assenza pressoche' totale di bastoncelli: e' la porzione del nostro campo visivo che offre la maggior "risoluzione" in luce ambiente ma e' praticamente cieca in condizioni di bassa visibilita' (evete mai notato la notte che alcune stelle di minor intensita' sono visibili solo se non le fissiamo?). Da studi effettuati sin dallo scorso secolo dal medico inglese Thomas Young, fu ipotizzato che esistessero tre diversi tipi di coni, sensibili ad altrettanti colori, non a caso definiti primari. Abbiamo coni sensibili al verde (pistacchio), coni sensibili al rosso (amarena), coni sensibili al blu (hanno inventato perfino il gusto "puffo", secondo me l'hanno fatto solo per simmetria cromatica). La luce bianca (panna), omnicomprensiva come detto di tutti i colori dell'iride (fa ingrassare come tutti i gusti gelato messi insieme), stimolera' in egual misura tutt'e tre i fotorecettori; una luce gialla quelli del verde e del rosso, mentre una luce blu si limitera' a stimolare solo quelli sensibili a tale colore primario. Sempre in maniera piuttosto empirica, fu mostrato come fosse possibile generare la maggior parte dei colori presenti in natura come somma dei tre colori primari e per far questo fu messa a punto una speciale macchina colorimetrica basata su tre fasci luminosi monocromatici rosso, verde, blu che sovrapponevano le loro emissioni su un unico schermo. Accanto a quest'ultimo veniva proiettato il generico colore da simulare e ai partecipanti all'esperimento veniva chiesto di trovare la terna di colori primari, regolando singolarmente le intensita', che riproduceva la medesima tinta. I daltonici fornirono risultati allucinanti ("Per favore, se ne vada!"... scherzo ovviamente, la stessa macchina fu utilizzata proprio per studiare questo disturbo visivo), mentre gli individui "normali" fornirono risultati, nella maggioranza dei casi, piuttosto coerenti. Per alcune tinte fu accertata l'impossibilita' di trovare la terna giusta, difficolta' che veniva meno aggiungendo successivamente un colore primario alla tinta da ricercare. E fu ipotizzato che la risposta dei nostri fotorecettori per alcune frequenze dello spettro avesse un andamento negativo. Insomma, un bel pasticcio... ma eravamo agli inizi della colorimetria moderna. Pensate che allo stato attuale, il diagramma di cromaticita' della CIE (Commission Internationale de l'Eclairage) universalmente riconosciuto come standard - per il quale vi stressero' nei prossimi mesi - e' basato su tre "primari" immaginari (non visibili), freddamente battezzati X, Y e Z. Miscelandoli opportunamente, come i classici RGB (si veda oltre), e' finalmente possibile restituire TUTTI i colori visibili (e, incidentalmente, infiniti colori non visibili) e non solo un ristretto sottoinsieme.
Sintesi cromatica
Quando emissioni di luce colorata vengono sovrapposte per generare nuove tinte si parla di sintesi cromatica additiva. Il bianco, tanto per citare il solito esempio, vien fuori dalla sovrapposizione di una luce blu, una luce rossa e una luce verde. Ma non e', naturalmente, l'unico sistema per generare i colori. Un secondo metodo, usato in particolar modo in tipografica e piu' in generare nelle arti grafiche (pittura compresa!) e' detto sintesi sottrattiva e riproduce le tinte sottraendo al bianco i colori primari prima elencati. Per generare il giallo - come gia' anticipato - sottrarremo alla luce bianca il blu, sottraendo il rosso otterremo l'azzurro ciano, mentre facendo lo stesso col il verde avremo rosso magenta. Questo, come i vari rosso-porpora, non e' un colore spettrale: per quanto giocheremo col nostro prisma, non riusciremo mai ad estrarlo!. Lo possiamo pero' ottenere dalla somma del rosso e del blu (fiiiuuu!!!). E come funziona un filtro sottrattore? Semplice: e' realizzato con un materiale semitrasparente del colore complementare a quello da filtrare. Un filtro giallo spazza via il blu, un filtro magenta fa fuori il verde, un filtro azzurro ciano ce l'ha a morte col rosso (ogni riferimento agli azzurri di Forza Italia, contrapposti ai rossi di Rifondazione e del PDS, e' puramente casuale. Forse!). Disponendo dunque di filtri colorati giallo, magenta, ciano, (o meglio di tre serie di filtri di tali colori nelle varie intensita'), possiamo divertirci a "creare" qualsiasi colore sovrapponendo filtri di diversa tinta e intensita' ad una fonte luminosa bianca. Sul medesimo principio, sintesi sottrattiva (detta anche CMY, da Cyan, Magenta, Yellow), si basa la pittura, la stampa tipografica e, a ben vedere, anche quella fotografica. Sovrapponendo su un fondo bianco pigmenti colorati che assorbono (sottraggono) determinate bande cromatiche e' possibile la stampa a colori. La modulazione dell'intensita' si ottiene col noto meccanismo della retinatura, con la quale le tinte piu' tenui sono realizzate dall'accostamento rado di puntini di piccolissima dimensione mentre quelle piu' forti vedono ingrandire i punti di stampa fino a toccarsi nel caso della copertura piena (colori al 100%). Poi, per ragioni piu' di natura tecnologia che fisica, ai tre colori CMY ne viene aggiunto un quarto, il nero (e diventa CMYK), in quanto con gli inchiostri e le tecnologie attualmente disponibili proprio quest'ultimo non-colore ha notevoli problemi di resa. Cari ciano, magenta e giallo, visto che non siete capaci di generare un nero degno di questo nome, lo stampiamo a parte e non ne parliamo piu'. Nacque cosi' la quadricromia...
Triadi e fosfori
I monitor a colori sono, invece, dispositivi che utilizzano la sintesi additiva (RGB, acronimo di Red, Green, Blu, rosso, verde, blu) per generare le varie tinte visualizzabili. Dal piu' sofisticato monitor ad alta risoluzione per arti grafiche al piu' scadente TVcolor domestico di madre ignota, se prendiamo una lente d'ingrandimento (ben potente nel primo caso, probabilmente superflua ne secondo) potremo notare che una schermata completamente bianca in realta' e' formata dal susseguisi di microscopiche triadi di puntini colorati RGB, detti fosfori. Un'altra cosa che probabilmente avrete notato, almeno in passato, era la moda di alcune reti televisive (compresa mamma RAI) di trasmettere durante le ore mattutine o la notte il cosiddetto monoscopio o piu' semplicemente le otto bande colorate verticali durante le prove tecniche di trasmissione. Otto colori, dal nero al bianco, con in mezzo il rosso, il verde, il blu, il ciano, il magenta e il giallo che corrispondevano esattamente alle otto possibili eccitazioni delle triadi alla massima intensita'. Il nero, come facilmente intuibile, corrisponde ai "cannoni" spenti: nessun fosforo viene stimolato e il colore risultante e' quello dello schermo spento. Da questo la lotta, alcuni anni fa, a chi ce l'aveva piu' nero: uscirono i TVcolor "UltraBlack", "MicroBlack", "Black-Black", "Torna a casa Lessie", ma nessuno capiva perche' fosse cosi' importante questo non-colore. Magari la gente pensava ad esigenze estetiche: nero e' bello! All'estremo opposto... della prova tecnica di trasmissione, trovavamo il bianco: come detto tale tinta e' realizzata accendendo contemporaneamente tutte le triadi, alla massima intensita'. In mezzo le rimanenti sei possibili combinazioni di uno o due fosfori eccitati. I colori primari, banalmente, venivano fuori stimolando soltanto i fosfori corrispondenti (rosso per il rosso, verde per il verde, blu per il blu... sono stato abbastanza chiaro?). Le rimanenti tre bande, giallo, ciano, magenta, si ottengono stimolando a due a due i tre fosfori disponibili: rosso+verde da' il giallo, verde+blu da' il ciano, blu+rosso da' il magenta. Gli otto colori fondamentali si ottengono, su un monitor RGB, proprio in questo modo, tutte le infinite tinte intermedie vengon fuori regolando opportunamente lo stimolo dei singoli fosfori. Banalmente un grigio 50% e' ottenuto stimolando in tale percentuale tutti i fosfori, un acceso arancio e' formato (ad esempio) dal 100% di rosso e dal 50% di verde e se a questa tinta aggiungiamo un 75% di blu, abbiamo probabilmente fatto fuori la pantera rosa.
Difficolta' di stampa
La causa principale per cui sicuramente vi arrabbiate ogni volta che provate a stampare a colori una vostra foto digitale risiede soprattutto nel fatto che lo spazio cromatico CMYK (quello della quadricromia) e' diverso dallo spazio cromatico RGB. Moltissimi colori visualizzabili sul vostro monitor non sono proprio fisicamente stampabili, quindi ogni imprecazione e' assolutamente fuori luogo. Se puo' aver senso registrare e trattare le immagini in formato RGB (meglio sarebbe utilizzare un formato device-indepentent come il CIE-lab), sappiate che prima di mandarle in stampa e' assolutamente necessario trasformarle in CMYK per verificare quali tinte state per perdere. Potremmo decidere, ad esempio, di effettuare ulteriori ritocchi cromatici prima dell'uscita su carta. Un dispositivo RGB, qual e' il vostro monitor, e' in grado di simulare con una buona approssimazione il risultato su carta a condizione che il software utilizzato sia capace di effettuare la trasformazione nella maniera piu' opportuna.
Calibrare si puo'...
Assunto che, tra originale fotografico e risultato finale su carta e' frapposta una complessa catena di dispositivi, ognuno responsabile in parte del trasporto della fedelta' cromatica, ci si pone il problema di come uscire vivi da questo circolo vizioso. Cominciamo dallo scanner. Qualunque sia il suo formato, la sua fascia di prezzo, la tecnologia utilizzata per la digitalizzazione, una cosa e' certa" avra' un modo "tutto suo" di interpretare (di leggere) i colori. Sbagliato o corretto che sia, e' assolutamente necessario che il sistema, l'intera catena fotodigitale, sia a conoscenza del suo comportamento cromatico. Deve, in altre parole, sapere in che modo vengono codificate le varie tinte. Quel particolare giallo paglierino sara' codificato in questo modo, il rosso scarlatto in quest'altro, il blu cobalto cosi', il rosso pomodoro... pomi'. Naturalmente non e' possibile partire dai colori in genere cosi' come siamo abituati a chiamarli (non penserete mica che esiste un unico blu cobalto!), ma e' necessario partire da tinte campione di cui e' nota la ricetta cromatica. Esistono in commercio delle tabelle di test formate da svariati quadratini colorati, stampate su carta fotografica con la massima cura e testate una per una con appositi spettrofotometri professionali. Con la tabella di test e', normalmente, fornito un dischetto contenente i reali valori letti dallo strumento professionale sicche' e' possibile sapere con esattezza l'effettiva composizione dei colori indicati. Tramite un software di calibrazione, abilitato per utilizzare la tabella test di cui sopra, si sottopone ad "esame cromatico" lo scanner: inserita la matrice di colori sul piano di lettura, il software di calibrazione (che sa esattamente quei colori come sono fatti) analizza il comportamento del dispositivo. Magari scoprendo che la tinta XYZ viene letta come X'Y'Z', e lo stesso (con differenze diverse) avviene praticamente per tutti i colori rilevati. Confrontando, subito dopo, i valori letti dallo scanner con i dati reali contenuti nel dischetto, il software di calibrazione e' in grado di costruire il profilo cromatico dello scanner semplicemente (si fa per dire...) effettuando una sottrazione tra le due tabelle. Ci siamo quasi: digitalizzato ora un originale fotografico qualunque e' possibile "rimappare" la lettura teste' effettuata nei valori calibrati tenendo conto delle differenze rilevate in sede di calibrazione. Naturalmente le tabelle test non contengono tutte le tinte possibili ed immaginabili ma un ristrettissimo sottoinsieme: un centinaio di valori o poco piu'. Un altro compito del software di calibrazione sara', ovviamente, quello di interpolare i dati letti in modo da stimare il comportamento del dispositivo anche per le tinte intermedie non contenute nella cartina di test. Solo cosi' potremo esser certi di non aver letto fischi per fiaschi... e per quanto riguarda lo scanner siamo a posto. Il secondo problema riguarda la visualizzazione sul monitor. Assunto che la nostra immagine digitale, grazie all'utilizzo del profilo cromatico "vero" del dispositivo utilizzato, sia corrispondente all'originale fotografico, nel momento in cui la visualizziamo a video non dobbiamo permettere che il monitor massacri nuovamente il tutto. Tornando all'esempio di prima, la tinta XYZ (letta dallo scanner come X'Y'Z' ma riconvertita in XYZ dal software di calibrazione) dovra', per quanto possibile, essere visualizzata come l'XYZ originale e non in altro modo (X''Y''Z'', tanto per essere originali). Ovvero, a quel valore digitale cromatico, ottenuto dalla lettura calibrata di una determinata tinta, deve corrispondere anche su monitor (e ricordatevi che c'e' sempre di mezzo la scheda video) la stessa tinta e non "qualcosa che vi assomigli". La calibrazione del monitor e' un po' piu' dolorosa di quella dello scanner in quanto non e' sufficiente una cartina cromatica e un software ma e' coinvolto nella riuscita del procedimento nientepopodimeno che il sistema operativo della macchina utilizzata ed e' necessario utilizzare un colorimetro esterno per effettuare la calibrazione vera e propria. Oltre a questo, il monitor deve essere stabile, fluttuando il meno possibile all'interno del suo spazio cromatico, evitando in altre parole di avere comportamenti "troppo diversi" nell'arco della giornata. Il sistema operativo della macchina deve, inoltre, avere una propria coscienza cromatica: deve essere in grado di gestire i profili di calibrazione di monitor e scheda video, pilotando opportunamente quest'ultima per visualizzare i colori correttamente. Anche in questo caso si utilizza un software di calibrazione che visualizza colori campione sul monitor e, contemporaneamente, legge tramite il colorimetro le tinte effettivamente visualizzate. E costruisce anche per il monitor (in realta' per l'accoppiata scheda video+monitor) il profilo cromatico del dispositivo: una nuova tabella di conversione con la quale i colori verranno visualizzati correttamente dal nostro monitor. Prima di proseguire con la fase di stampa vediamo finora quel che e' successo. Siamo partiti da un originale fotografico e abbiamo ottenuto a video la sua corretta visualizzazione dopo un'altrettanto corretta digitalizzazione tramite scanner. Per semplicita' focalizziamo la nostra attenzione sulla tinta XYZ che, finalmente, vediamo tale anche su monitor. Lo scanner, come detto precedentemente, legge la tinta XYZ come X'Y'Z'. Appena letta l'immagine, il software di gestione del dispositivo, che tiene conto del profilo cromatico costruito dal software di calibrazione con l'utilizzo della cartina test, converte automaticamente il dato X'Y'Z' nel corretto XYZ. Ora l'immagine digitale e' nella memoria del nostro computer pronta per essere visualizzata. Lo stesso avviene in questa fase: visto che la tinta XYZ viene mostrata a video come X''Y''Z'' e' necessario un secondo intervento correttivo (sicuramente diverso dal primo) per riaggiustare nuovamente i colori. Con una nuova trasformazione cromatica, i colori codificati in memoria sono rimappati secondo il profilo cromatico del monitor per ottenere le tinte esatte in visualizzazione. Posto che sia chiaro tutto il ragionamento, proviamo ad andare avanti. Il terzo problema, come noto, lo ritroviamo in fase di stampa. Se la nostra macchina non e' (al pari dello scanner e del monitor) un dispositivo calibrabile ben difficilmente potremo ottenere, in uscita su carta, risultati soddisfacenti. La calibrazione della stampante e' simile a quella relativa all'accoppiata monitor+scheda video. Tramite un analizzatore colore (simile a quello utilizzato per quest'ultimi ma in grado di leggere le tinte per riflessione) si effettua la lettura di una tabella test, disponibile in questo caso in formato digitale, stampata tramite la periferica d'uscita a colori da calibrare. E, in pratica, succede esattamente la stessa cosa del caso precedente. Il software di calibrazione conosce la natura della tabella, quadratino per quadratino tutti i colori che "dovrebbero" essere stampati, analizza tramite il dispositivo di lettura la tabella stampata e... si rende conto del comportamento cromatico della stampante. Costruisce (ancora una volta) un profilo di calibrazione di quel dispositivo, in pratica un'ormai consueta tabella numerica in cui e' radiografato il suo comportamento. Tramite questa, quando stamperemo un'immagine, il software utilizzato per la stampa dovra' effettuare le necessarie conversioni (rimappatura) per rendere al meglio il risultato su carta.
Guerra di indipendenza
I lettori piu' smaliziato avranno certamente intravisto, nell'indicazione dei colori tipo XYZ, X'Y'Z', X''Y''Z'' utilizzata precedentemente, la consueta notazione RGB (Red, Green, Blu, rosso, verde, blu) usata da molti programmi di grafica per la codifica cromatica. Ne abbiamo anche parlato brevemente lo scorso mese (in contrapposizione alla codifica CMY o CMYK della stampa) e riguarda principalmente i colori dei monitor e la lettura degli scanner. Normalmente la codifica RGB "contempla" 256 valori per componente, con i quali e' possibile codificare i canonici 16.7 milioni di colori (i famosi 24 bit/pixel). Sappiate, comunque, che 256 livelli per colore (8 bit) sono appena sufficienti per la visualizzazione decente di immagini fotografiche ben equilibrate ma mostrano evidentissimi limiti con le immagini ricche di dettagli nelle zone d'ombra e/o in nei casi in cui e' necessario agire pesantemente sull'equilibrio cromatico complessivo. Gia' con 30 bit/pixel (1024 livelli per componente primaria) le cose migliorano notevolmente, specialmente per quanto riguarda gli scanner che cominciano a fornire risultati interessanti anche con gli originali fotografici piu' difficili. Ma, numero di bit/pixel a parte, la codifica RGB (cosi' come la tricromia CMY e la quadricromia CMYK) ha un inconveniente ancor piu' preoccupante sotto il "profilo" cromatico. Non e' stato infatti mai stabilito, con rigore deterministico, quanto rosso e' il rosso (idem per gli altri due colori) ne' come questo vari in funzione del suo valore. Ad esempio, una tinta visualizzata su un monitor potrebbe essere codificata nel seguente modo:
Rosso 120 Verde 200 Blu 80
mentre, su un altro monitor, potrebbe essere codificata da:
Rosso 110 Verde 210 Blu 100
Lo stesso ragionamento vale per gli scanner e, in generale, per tutte le periferiche che utilizzano codifiche di questo tipo. Si usa dire, in questi casi, le la codifica cromatica e' "device dependent" ovvero dipende dal dispositivo. Quel determinato colore viene codificato in quei determinati valori da quel determinato dispositivo. Se utilizziamo un dispositivo diverso, lo stesso colore sara' codificato diversamente. Attenzione: non per l'imprecisione di funzionamento di questo o di quell'apparato, ma solo perche' la codifica RGB non e' assoluta. E' un po' quello che succede con i vestiti e le fantomatiche taglie "XL", "L", "M", "S" (e a ben vedere succede la stessa cosa anche con i valori numerici): non e' mai stato stabilito quanto "extra large" debba essere la taglia XL ne' quanto questa sia piu' grande della L. Ogni produttore fa a modo suo e non possiamo certo addebitargli una colpa (almeno fintantoche' non scopriamo che la sua XL e' piu' piccola della sua L!).
Codifichiamo il colore
Il problema principale, come avrete ormai intuito, e' riuscire a codificare l'informazione colore senza appoggiarci al comportamento specifico di un determinato dispositivo. Gia' ad inizio secolo (quando di dispositivi di questo tipo non se ne parlava nemmeno nei libri di Giulio Verne), Albert H. Mansell ideo' un modello di classificazione cromatico basato sugli attributi tinta, saturazione, luminosita' dei colori. La tinta... e' il colore: rosso, verde, giallo, blu, indaco, ecc. ecc.; la saturazione e' il suo grado di purezza (quanto piu' un colore e' puro, tanto piu' si differenzia dal grigio); la luminosita', banalmente, rappresenta la caratteristica di essere piu' o meno chiaro. Nella sua classificazione, Mansell utilizzo' cinque colori principali alla loro massima saturazione (rosso, giallo, verde, blu, viola) e le cinque tinte intermedie (rosso-giallo, giallo-verde, verde-blu, blu-viola e viola-rosso) disponendole su una circonferenza. Al centro della circonferenza, nella terza dimensione e' posizionato l'asse dei livelli di grigio, dal bianco al nero. Le tinte codificate con questo schema variano la saturazione dall'esterno della circonferenza verso l'interno (al centro la saturazione e' nulla e troviamo l'asse dei livelli di grigio) mentre sono piu' o meno luminose salendo o scendendo nella terza dimensione. Un sistema attualmente molto utilizzato per codificare i colori e' detto HSB (hue, saturation, brightness) e si ispira fortemente all'atlante cromatico di Munsell. La ruota dei colori e' formata, semplicemente, dai tre colori primari della sintesi additiva (rosso, verde, blu) e dai tre colori primari della sintesi sottrattiva (ciano, magenta, giallo). Ad ogni colore e' contrapposto il suo colore complementare, sicche' la sequenza ciclica della tinta lungo la circonferenza, partendo dal blu e procedendo in senso orario, e' la seguente: blu, ciano, verde, giallo, rosso, magenta. Nel modello HSB, come avveniva nell'atlante di Munsell, sul perimetro esterno della circonferenza troviamo i colori alla loro massima saturazione. Man mano che ci spostiamo verso il centro la saturazione diminuisce e ci avviciniamo alle tinte acromatiche (i grigi). I colori possono essere codificati sottraendo la componente luminosita' e individuandoli nella ruota dei colori tramite i valori hue (tinta, posizione lungo la circonferenza) e saturazione (distanza dal centro). In realta' anche il modello HSB non e' assoluto ma dipende dal comportamento del dispositivo che visualizza o comunque tratta i colori codificati in questo modo. L'unico modo per uscirne vivi e' quello di riferirci all'unico dispositivo universale degno di essere preso in considerazione: l'apparato visivo umano. Per codificare i colori, nel primo dopoguerra gli inglesi Wright e Guild compirono numerosi esperimenti colorimetrici su un vasto campione di osservatori. La macchina utilizzata negli esperimenti aveva un funzionamento piuttosto semplice: il colore da misurare e' illuminato da una sorgente di luce bianca simile all'illuminazione solare. L'osservatore, regolando tre fasci luminosi rosso, verde, blu, doveva trovare la tripletta di valori con i quali si otteneva il colore osservato. In seguito agli esperimenti furono notate due cose piuttosto importanti. La prima riguardava una sufficiente coerenza nei risultati si' da pensare che l'apparato visivo umano avesse un comportamento piuttosto in accordo tra individuo e individuo, la seconda (piu' importante) fece emergere l'impossibilita' di individuare determinati colori semplicemente regolando le tre componenti cromatiche additive. Per alcune tinte, infatti, era necessario aggiungere un colore primario al campione osservato prima di riuscire ad ottenere la tripletta di componenti che lo riproducesse perfettamente. Da questa osservazione, due le possibili cause: o i colori primari utilizzati e tra loro miscelati non erano in grado di generare tutte le tinte, oppure i nostri sensori cromatici dell'occhio avevano per certe lunghezze d'onda un andamento negativo. Si dovette aspettare fino al 1931(data fatidica per la colorimetria) anno in cui la CIE (Commission Internationale de l'Eclairage) mise a punto una codifica cromatica che comprendesse tutti, ma proprio tutti!, i colori esistenti in natura e, in quanto tali, osservabili dall'occhio umano. Fu definito cosi' l'Osservatore Standard, l'Illuminante Standard ma soprattutto furono "inventati" tre colori primari immaginari ipersaturi (non osservabili), battezzati con notevole sforzo di fantasia X, Y, Z, con i quali era finalmente possibile generare tutti i colori possibili e immaginabili.
Colori e spettro
Come andiamo ripetendo da tempo, la luce altro non e' che una radiazione di natura elettromagnetica al pari delle onde radio, le microonde, i raggi X e i raggi gamma. Cio' che differenzia tutte queste radiazioni elettromagnetiche non e' la loro natura fisica ma essenzialmente la lunghezza d'onda (o, se preferite, la frequenza, inversamente proporzionale alla prima) e il loro comportamento nei confronti della materia. Le onde radio, da quelle emesse dai radiotrasmettitori ad onde lunghe fino alle microonde, occupano la parte bassa dello spettro elettromagnetico. In alto troviamo i raggi X e, ancora piu' su, i pericolosi raggi gamma. Piu' o meno a meta' strada, tra la zona degli infrarossi e la regione degli ultravioletti, e' situato lo spettro visibile mostrato in figura 1. L'unita' di misura normalmente utilizzata e' il "nanometro" (miliardesimo di metro) e si indica con "nm": a lunghezze d'onda inferiori - minori di 500 nm - corrispondono i colori piu' freddi (violetto-blu); a lunghezze d'onda maggiori - al di sopra dei 600 nm - troviamo i colori piu' caldi (arancione-rosso). En passant aggiungiamo che la temperatura colore delle tinte e' in realta' inversamente proporzionale... ai nostri modi di dire: le tinte generalmente indicate come "fredde" corrispondono a temperature colore elevate e viceversa. Ma questo, ad onor del vero, esula terribilmente dal rimanente contesto. Torniamo a noi: i "verdi" sono caratterizzati da lunghezze d'onda comprese tra 500 e 570 nm, limite al di sopra del quale incontriamo le tinte gialle. Da segnalare, inoltre, come l'occhio non percepisca in manera lineare le differenze cromatiche tra lunghezze d'onda differenti. Se, ad esempio, tra 450 e 500 nm si passa dal blu al verde (due tinte ben differenti tra loro, tant'e' che sono utilizzati come differenti componenti primarie) lo stesso non accade tra 600 e 650 nm (e ancor meno tra 650 e 700!) in cui spaziamo semplicemente in sfumature piu' o meno accese del rosso. Ma c'e' un problema piu' grosso. Nello spettro visibile - sembra un gioco di parole - possiamo individuare solo i colori "spettrali": tinte caratterizzate da un'unica lunghezza d'onda e per questo definite come monocromatiche. Esistono, pero', infinite tinte non spettrali (ovvero non presenti nello spettro) ottenute dalla miscelazione di colori "estremi" (ad esempio rosso+violetto). Si tratta delle cosiddette "porpore", colori ben noti in natura, ma non riproducibili monocromaticamente, ne' ricavabili per diffrazione da un raggio di luce bianca. Bel pasticcio!
Il diagramma CIE
Nel 1931 la Commission Internationale de l'Eclairage (Commissione Internazionale per l'Illuminazione) ha definito un diagramma di cromaticita' standard che comprende tutte le tinte visibili dall'occhio umano. Si basa, come altre codifiche di cui abbiamo parlato in precedenza, sull'utilizzo tre colori primari che, opportunamente miscelati tra loro in sintesi additiva, permettono di ottenere tutti i colori esistenti in natura. A differenza, pero', dei metodi RGB o CMY (sintesi additiva e sottrattiva), il diagramma di cromaticita' proposto dalla CIE non dipende dal comportamento di questo o quel dispositivo di visualizzazione o stampa in quanto e' basato sul concetto, al limite del filosofico-esistenziale, di "Osservatore Standard". L'Osservatore Standard e' definito a partire dalle proprieta' del nostro sistema visivo e si basa su analisi sistematiche effettuate su un vasto campione di osservatori umani. E da numerosi studi effettuati nel primo dopoguerra, fu notata l'impossibilita' di riuscire a riprodurre per sintesi additiva tutti i colori comunque si scegliesse la terna di primari reali da miscelare. Solo aggiungendo un colore primario alla tinta da codificare era possibile individuare una terna cromatica che la riproducesse fedelmente: fu ipotizzato cosi' che la risposta dei nostri fotorecettori retinici (i coni) avesse un andamento negativo per alcune frequenze dello spettro visibile. I primari scelti dalla CIE per generare tutti i colori visibili sono tinte ipersature: colori (in realta', non essendo visibili, non dovrebbero essere indicati come tali) piu' saturi di quanto i nostri fotorecettori retinici siano in grado di decifrare. I tre "primari immaginari", con notevole sforzo di fantasia, sono stati denominati X, Y, e Z. X corrisponde a un rosso violaceo ipersaturo contraddistinto da due picchi nello spettro cromatico rispettivamente intorno ai 450 nm e ai 600 nm (quest'ultimo molto superiore al primo, vedi figura 2), Y e Z corrispondono a tinte spettrali - sempre irrealisticamente ipersature - con lunghezza d'onda dominante rispettivamente di 520 e 477 nanometri. Inoltre la tinta Y (quella corrispondente al "verde ipersaturo") ha un andamento proporzionale alla nostra sensibilita' alla luminosita' delle tinte. Scelti i tre primari tramite i quali e' possibile ottenere, per sintesi additiva, qualsiasi tinta reale e' possibile a questo punto utilizzare uno spazio tridimensionale, avente per assi i tre primari utilizzati, per "catalogarle" tutte.
Buttiamo una dimensione
Per non ricorrere ad un diagramma tridimensionale e' possibile "normalizzare" le tinte facendo in modo che la loro somma sia sempre pari ad uno. Se X, Y, e Z sono i tre valori che identificano un colore, X+Y+Z la loro somma, e noi poniamo:
x = X/(X+Y+Z)
y = Y/(X+Y+Z)
z = Z/(X+Y+Z)
risulta che x+y+z (occhio alle minuscole!) e' sempre uguale ad 1 per qualsiasi valore originario di X, Y e Z (algebra spicciola, senza offesa per nessuno!). Da questo si ricava tra l'altro che:
z= 1-x-y
ed e' dunque possibile utilizzare due sole coordinate cromatiche (x e y, ad esempio) per identificare un colore essendo la terza (z, in questo caso) ricavabile sottraendo all'unita' le altre due. Il vantaggio e' evidente: normalizzando i colori col meccanismo della somma costante (uguale a 1) e' possibile utilizzare un grafico bidimensionale per "catalogare" qualitativamente (e non quantitativamente) tutte le tinte reali. Ovvero tracciamo tutti i colori possibili ed immaginabili la cui intensita' totale e' costante e pari ad uno: tutte le altre tinte sono ottenute semplicemente indicando, oltre ai valori x e y (il valore z si ottiene, come detto, dagli altri due) il suo grado di luminosita' espresso, volendo, in forma percentuale. Tutti i colori (reali e irreali) generabili con i primari x e y giacciono su un triangolo rettangolo (la zona nera di figura 3) avente come vertici l'origine (0,0) il punto massimo di x e minimo di y (1,0) e il punto massimo di y e minimo di x (0,1). All'interno di questo triangolo rettangolo e' tracciato il diagramma CIE dei colori reali: una campana che racchiude tutte le tinte possibili. Al di fuori della campana (ma sempre all'interno del triangolo) ci sono tutti i colori non visibili o non distinguibili da quelli presenti lungo il perimetro esterno. Il diagramma CIE gode, proprio per il modo in cui e' stato generato, di alcune importanti caratteristiche che andiamo ora ad illustrare maggiormente in dettaglio.
L'illuminante CIE
Piu' o meno al centro del diagramma CIE e' presente un punto (un colore), come vedremo tra breve, di importanza strategica, indicato con la lettera "C". E' il cosiddetto "Illuminante CIE", assunto come riferimento e corrispondente alla radiazione emessa da una superficie bianca illuminata da luce diurna media. Lungo il perimetro curvo della campana si trovano tutte le tinte spettrali alla loro massima saturazione: i circoletti grigi e i valori indicati segnalano le lunghezze d'onda corrispondenti. Nella parte alta del diagramma "vivono" le famiglie dei verdi; in basso a sinistra i blu, in basso a destra i rossi. Sul segmento rettilineo che congiunge i due vertici inferiori della campana si trovano i colori non spettrali (o porpore) alla loro massima saturazione. Tutti i colori non spettrali, dalla saturazione via via decrescente, sono situati nel triangolo delimitato in basso dal segmento delle porpore e avente come vertice il punto C. Lo stesso vale per i colori spettrali, situati nella rimanente parte del diagramma: man mano che ci si avvicina all'illuminante C i colori sono sempre meno saturi. Per come e' costruito il diagramma, prendendo due tinte qualsiasi, il segmento che le unisce rappresenta tutte le possibili mescolanze additive dei due colori prescelti. Non solo: la posizione relativa lungo il segmento di congiunzione rappresenta la percentuale di mescolanza delle tinte. Cosi' nel baricentro del segmento troviamo la tinta esattamente formata dal 50% del primo colore e dal 50% del secondo colore. Spostandoci ad esempio ai "tre quarti" del segmento, la tinta individuata corrisponde alla somma del 75% del primo colore e del 25 % del secondo colore e cosi' via. Lo stesso discorso vale per la sintesi additiva di tre o piu' componenti cromatiche: le tinte ottenibili dalla loro mescolanza sono tutte quelle delimitate dal poligono convesso che ha come vertici i punti del diagramma che corrispondono ai colori utilizzati. Tornando al caso di due sole tinte, se il segmento che le unisce passa per il punto C i colori presi in considerazione sono tra loro complementari. Se il punto C "cade" nel baricentro del segmento, le due tinte hanno la medesima saturazione (e' uguale la loro distanza dall'illuminante CIE) e sommandole tra di loro si ottiene il colore bianco. Il diagramma di cromaticita' CIE puo' essere utilizzato, prendendo le dovute precauzioni, anche per le mescolanze sottrattive (come avviene per la stampa). I colori ottenuti dalla mescolanza sottrattiva di due tinte non giacciono sul segmento rettilineo che li unisce ma lungo un segmento curvilineo (vedi figura 6) del quale non e' nota a priori la forma esatta. Per tracciare la curva (il luogo dei punti corrispondenti ai colori ottenibili dalla sintesi sottrattiva dei due colori) e' necessario "campionare" alcune mescolanze tipiche (ad esempio 10%-90%, 20%-80%, 30%-70%, ecc. ecc.) ed interpolare cosi' l'andamento complessivo. In figura 7 e' mostrato un tipico spazio cromatico di un dispositivo RGB (quale puo' essere un monitor a colori), delimitato dal triangolo bianco avente come vertice i tre colori primari della sintesi additiva e un altrettanto tipico spazio cromatico CMY (stampa a colori), delimitato dall'esagono tracciato in grigio. Da segnalare due cose interessanti. Innanzitutto, come facilmente verificabile tenendo sottocchio il diagramma, proprio per la forma a campana di quest'ultimo, comunque scegliamo i tre primari all'interno dei colori reali non riusciremo mai a riprodurre con essi tutte le tinte ma ne escluderemo sempre una certa quantita'. Dunque non crediate che esistano monitor RGB in grado di riprodurre tutto il riproducibile o scanner a colori altrettanto superdotati. La seconda considerazione riguarda lo spazio cromatico della stampa a colori, ridotto rispetto allo spazio RGB ma leggermente piu' performante per quel che riguarda la stampa delle tinte azzurro ciano. Infine, in figura 8, e' mostrata la codifica dei colori rappresentati dal diagramma di cromaticita' CIE in termini di lunghezza d'onda dominante e saturazione (o grado di purezza). Se un colore appartiene al perimetro esterno e', come gia' detto, al suo massimo grado di purezza, se cade all'interno del diagramma ha come saturazione la distanza relativa la tinta e il punto C, misurata lungo il segmento passante per il colore e congiungente il bianco col bordo esterno. Il punto in cui il prolungamento del segmento incontra il perimetro identifica la lunghezza d'onda dominante della tinta considerata. Ad esempio il colore identificato dal punto A di figura 8 e' caratterizzato da una saturazione del 75% e una lunghezza d'onda dominante di 495 nm. Nel caso di tinte non spettrali, si indica come lunghezza d'onda dominante quella del colore complementare, indicandola col suffisso "c": sempre in figura 8, il colore B ha una saturazione del 66% e come lunghezza d'onda dominante il valore 510c.
Da CIExy a CIElab
Affascinante o indifferente, bello o brutto, utile o inutile che sia (se siete del secondo avviso probabilmente gia' non state piu' leggendo queste righe) il diagramma di cromaticita' CIExy finora mostrato ha, ma non per colpa sua, un solo "difetto". Non e' "linearmente compatibile" - mi si conceda tale maccheronica espressione - con la nostra percezione visiva delle differenze tra colori (eccheppalle!!!). Fermo restando che, come gia' ampiamente dichiarato, i diagrammi pubblicati in queste pagine sono lontani alcuni anni luce dai diagrammi reali (a causa dei ben noti - speriamo! - limiti cromatici della stampa tipografica) prese alcune coppie di colori (distanti tra loro, in termini metrici, una determinata quantita' prefissata per tutte le coppie) in punti diversi dei diagramma potremo notare che alcuni di essi ci sembreranno piu' simili o piu' differenti tra loro di altri. Facciamo un esempio (sempre teorico, vista l'impossibilita' di verificarlo realmente sulle mappe pubblicate in queste pagine): ipotizziamo di avere un diagramma CIExy grande dieci centimetri. Prendiamo coppie di colori, in vari punti del diagramma, distanti tra solo - sempre ad esempio - tre millimetri e uniamole da un segmento di pari lunghezza. Potremmo agilmente verificare che in alcune zone del diagramma i colori agli estremi dei segmenti sono assai simili tra loro, in altre zone (sempre a tre millimetri di distanza gli uni dagli altri) sono percettibilmente molto diversi. Nelle zone alte del diagramma (vi dovete fidare come mi sono fidato io di alcuni documenti CIE), a parita' di distanza, i colori sono assai piu' simili tra solo di quanto succeda nelle zone basse, in particolar modo verso l'inizio dei colori spettrali puri (zona del blu-violetto). Nel 1976 (ben 45 anni dopo il primo diagramma e ormai agli albori della rivoluzione informatica dei giorni nostri) la CIE ha partorito un nuovo diagramma denominato UCS (Uniform Color Scale) direttamente derivato dal primo "semplicemente" rimappando i colori in modo tale da risultare tra loro equidistanti a parita' di differenza percettiva. Realizzata la nuova mappa cromatica, hanno visto la luce contemporaneamente due nuove codifiche denominate L*a*b* e L*u*v*, la prima indicata per sintesi additiva, la seconda per la sintesi sottrattiva. Focalizziamo l'attenzione sulla prima della due. Nella nuova codifica L*a*b* (che d'ora in poi chiameremo Lab) i colori vengono disposti all'interno di uno spazio tridimensionale i cui tre assi sono "L", "a" e "b". "L" identifica la luminosita' e puo' avere solo valori positivi, di solito da 0 a 100, ma puo' essere utilizzata anche una risoluzione diversa (ad esempio da 0 a 255 per sfruttare l'intera capacita' degli otto bit). "a" e "b" sono le caratteristiche cromatiche: con la prima si spazia dal verde al rosso, con la seconda dal blu al giallo. Il loro range di valori varia di norma da -300 a +300, ma anche in questo caso possono essere utilizzate risoluzioni differenti: Photoshop, ad esempio, utilizza come range di valori quello compreso tra -128 e +127, impiegando anche per questi 1+1 byte per la loro codifica. Definito uno spazio cromatico percettibilmente uniforme e' possibile misurare in maniera piuttosto agevole quanto siano "distanti" tra loro due colori, ovvero quanto siano tra loro diversi. Nasce cosi' il Delta E che rappresenta la distanza euclidea tra due qualsiasi tinte dello spazio cromatico CIElab che, per come e' stato costruito (a partire dal CIExy), e' indipendente dal dispositivo utilizzato per la visualizzazione.